Pages Menu
RssFacebook
Categories Menu

Scritto da nel Numero 96 - 1 Febbraio 2013, Viaggi | 0 commenti

Saluti boliviani

Saluti boliviani

Miei cari tutti,

perdonate la mia lunga assenza legata alle carenti infrastrutture Boliviane che vedono il Wi Fi come un miraggio e gli Internet point come luoghi dove invecchiare in attesa che si carichi una pagina.

Se non ricordo male ci siamo lasciati a Salta, capitale della movida, in un chiassoso ostello che si è rivelato essere decisamente pro vita notturna (credo non mi abituerò mai a considerare l’una e mezza di notte un orario ragionevolmente non troppo temprano per uscire) e i cui gestori mi hanno trascinata per due notti consecutive in una discoteca, intruppata come in un gregge di pecore/turiste guidato da Rosa, paffutella Saltegna alla quale mancava solo una cuffietta e un bastone per essere identica alla guardiana delle oche che normalmente si dipinge nei libri per bambini.

Ancora mi risulta oscuro dove stia il profitto per il locale nel darmi un ingresso gratuito e un sacco di free drinks, cortesemente declinati (perché come dissi al ragazzo che mi guardava sbigottito per il mio ennesimo rifiuto, potrò anche dimostrare 25 anni, ma per i postumi, decisamente ne ho quasi 31), ma credo che fosse perché mi avevano preso in simpatia, essendo l’unica a non biascicare, barcollare e starnazzare come il sopracitato pennuto e il resto delle chicas.
Ma se la prima sera ci ha colti di sorpresa, la seconda sapevamo già cosa aspettarci: pessima musica, caldo asfissiante e rientro alla branda non prima dell’alba. Per questo, la notte seguente, sul viso di ognuno di noi era dipinto lo sbigottimento più totale nel ritrovarci un’altra volta a percorrere la strada verso il medesimo luogo e la medesima situazione.
Ma ciò che sempre rimarrà un mistero è come Alex, notoriamente allergico a tutto ciò, sia riuscito ad evitare entrambe le volte il catturone.

Devo dire che mi sono sorpresa a rimpiangere un po’ questo brio cittadino, seppur eccessivo, nei giorni a seguire.
Perché salire al Nord ha significato vedere luoghi dalle naturalezze mozzafiato, ma di scarsa vivacità.

Incomincia dunque la lunga subida fatta di bus e paesini dai nomi ridondanti come Purmamarca, Humahuaca (che consiglio a tutti voi di pronunciare come sottofondo della canzone “the lion sleeps tonight” al posto di Awimmawe, vedrete che dopo il primo giro vi entra a tono e se foste stati qui con me potreste incominciare a improvvisare anche voi i più svariati commenti sull’orrido monumento che troneggia in cima alla collina principale), vagamente giapponesi come Iruya (che qui si pronuncia Irushia) o finalmente semplici come Tilcara (unico luogo per il quale sono riuscita a comprare il biglietto al primo tentativo, senza suscitare troppa ilarità)

E così, ai piedi del Cerro de cinco colores, chiacchiero con Zen, intrepido Singaporeano, in viaggio da sette anni con il cugino, proprietario di un condominio a Bankok (Lella, dobbiamo andare a trovarli) che mi racconta di aver incontrato la più vecchia backpacker del mondo: una novantenne in viaggio da sempre che però confessa di portare lo zaino solo in apparenza, perché sempre trova qualcuno che la aiuta.
E tra un aneddoto e l’altro, ecco che mi dà lo spunto per una nuova professione. Chiedendogli come fosse possibile viaggiare tanto a lungo senza mai fermarsi scopro che una volta ha conosciuto una coppia francese che molto presto e con molti pochi soldi in tasca, ha deciso di lasciare la patria alla volta del mondo. E che lei ha tratto spunto dal commento di qualcuno, incontrato per caso, che le ha detto “Sei francese? Beh, saprai cucinare benissimo!” per reinventarsi insegnante di cucina.
Le sue basi erano le uova strapazzate.
Posso farcela!
Solo mi manca la faccia tosta necessaria per attuare il tutto. Anche se resta comunque vero che per dire agli altri cosa fare e limitarsi ad assaggiare il risultato non sono necessarie doti particolari.
E seppure ancora sono lungi da prendere decisioni di alcun tipo, archivio felice il suggerimento insieme all’ennesimo indirizzo e.mail. Una persona in più da ritrovare.

La minuscola Tilcara supplisce alla necessità del vaccino contro la febbre gialla, che in Salta ci aveva visto percorrere a vuoto chilometri di isolati tra gli ospedali che si rimpallavano la questione (a dispetto della campagna di prevenzione che decora la maggioranza dei muri cittadini) in una situazione analoga a quella di Aterix e Obelix alla disperata ricerca del lasciapassare A38.
[A titolo di cronaca, invece, la missione di spedire un altro pacco in Italia da La Quiaca è fallita miseramente (col senno di poi è stato meglio così, perché qui tutto è tranne che caldo)]

Ma ritornando tra i giganteschi cactus che inverdiscono le rovine di una paesino che nulla ha a che vedere con la San Francisco statunitense eccoci al primo screzio tra compagni di viaggio, che pare evolversi verso una prematura separazione e che si risolve invece col tacito accordo di non sollevare mai più l’argomento e due biglietti per la città sotto alle nubi: Iruya.

Perché come nei romanzi di fantasia hai luoghi nascosti da cascate, qui hai centri abitati sotto coltri di zucchero filato sospese come ragnatele tra le pendici andine. Posti remoti raggiunti sì dal turismo, ma non dall’acqua calda, che si ottiene solo rischiando di essere fulminati accendendo un antiquato boiler e dove l’unica occupazione sensata è oziare su brande cigolanti e giocare con le carte di Spiderman 3 (che per qualche oscura ragione, dopo il 7 hanno solo 10, 11 e 12) tentando invano di ricostruire le complicate regole del “Trucco”, popolare gioco Argentino che si impara al liceo e che per questo Alex non conosce (ha trascorso l’adolescenza in Spagna), senza risultati apprezzabili.

Per raggiungere la frontiera tocca regressar a Humahuaca, rifischiettar il motivetto, e saltare sul primo bus per La Quiaca che di interessante offre solo un vecchio pulmino trasformato a paninoteca e il passare un confine a piedi.

Fortunatamente il documento d’identità di Alex è sufficiente per viaggiare in tutto il Sud America, perché il suo passaporto Italiano (nonno trevigiano) gli sarebbe costato 300 dollari di multa (effettivamente non risultava mai entrato in Argentina)e così, nello spazio di dieci metri, eccoci trasportati in un universo di colori e suoni opposti a quello appena lasciato.

Perché la Bolivia è un casino.

La Bolivia è gente che grida destinazioni, è gente che si assalta per vendersi un biglietto dell’autobus (perché noi siamo troppo alti per essere sovrastati dai venditori che invece circondano i malcapitati locali), sono i bambini che stonano canzoni sui bus mentre si aspetta che parta (attesa che pare insensatamente lunga, prima di scoprire che qui siamo un’ora indietro) e che pagheresti solo per far tacere, è il forte odore di coca che impregna le minuscole vecchine che si caricano misteriosi involti colorati sulle spalle (a tutt’oggi non ho mai visto nessun uomo portare altro che se stesso) dai quali ogni tanto spunta il viso moccioloso di un pargoletto, sono i pullman che percorrono polverose distanze con tempistiche eterne, dovute alla mancanza di strade degne di tal nome, sono i micro ristoranti di strada, fatti solo da una carriola, quattro sgabelli e da pentole dal contenuto poco invitante, sono i panorami che ti lasciano di stucco e le banconote da 10 che ritraggono un tizio molto simile a un giovane David Bowie.

La Bolivia è tutto tranne che confortevole ed accogliente. Ed Alex, non abituato al viaggio, comincia a dare cenni di cedimento.

Da parte mia sono stoicamente sopravvissuta al bicho Argentino, che mi aveva reso leggibile in braille, alla vendetta di Moctezuma, agli interminabili sballottamenti degli spostamenti, alla incredibile escursione termica tra giorno e notte, a tre giorni senza doccia per visitare i dintorni di Uyuni in compagnia di 20 Israeliani (perdonate la battuta decisamente politicamente scorretta, ma credo che il giovane Adolf fosse stato segnato da un’esperienza analoga in gioventù) e agli scazzi del mio viziato compañero che presto saluterò al confine tra Paraguay, Argentina e Brasile: perché ho deciso gente, vado a vedere Iguazù!

Se sarà un addio o un arrivederci lo decideranno due mesi di separazione e il suo raccimolare durante essi abbastanza denaro per un volo solo andata verso la terra dei suoi padri. Intanto, per ripagare le sue lezioni di Castillano, idioma che mi vede ormai abbastanza fluente, tanto da fungere da interprete per altri viaggiatori, gliene impartisco di Italiano.

Quien sabe si voy a llevarlo como souvenir..

Scrivi un commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>