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Scritto da nel Economia e Mercati, Numero 103 - 1 Ottobre 2013 | 0 commenti

Breve nota sugli investimenti diretti DALL’estero

Breve nota sugli investimenti diretti DALL’estero

Vorrei solo spendere qualche riga per segnalare un paio di punti che credo sia importante notare, relativamente all’acquisto di Telco, la holding di controllo di Telecom, da parte degli spagnoli di Telefonica. Spagnoli per così dire, visto che quando l’ex monopolista è stato privatizzato nel 1997 è finito collocato integralmente sul mercato. Anche Telecom è stata privatizzata nel medesimo anno e da allora non è più “Italiana” ma è “privata”. E’ forse diverso il comportamento di un imprenditore solo perché in tasca ha un documento italiano o spagnolo? In questo senso, speriamo di sì perché gli imprenditori italiani hanno avuto il brillante merito di gravare Telecom di debiti (la cordata di quel Colaninno già dirigente di De Benedetti che ha ben capito come si fanno i soldi con le aziende ex pubbliche e che si è infilato anche nell’altro business Alitalia), di garantire la “sicurezza della rete” con lo scandalo delle intercettazioni (vedi Tronchetti), mentre nei restanti periodi l’azienda è rimasta parcheggiata nel salotto buono. Con buona pace di chi aveva investito nel nostro campione nazionale di Telecomunicazioni e si è visto crollare le azioni in portafoglio.

Si fa tanto parlare di “attrazione di investimenti esteri” e questo caso ne è assolutamente l’esempio chiave. Che cosa pensiamo siano gli investimenti attratti? Non possono prendere forma diversa da partecipazioni azionarie in aziende locali e relative cessioni di proprietà. Paese che vai, mercato che trovi. Mentre per conquistare il controllo di Telefonica occorre comprarne le azioni sul mercato, in Italia è sufficiente accordarsi coi detentori del nocciolo del nocciolo per controllare i frutti del frutto: una holding Telco caduta per qualche centinaio di milioni è in grado di gestire un’azienda Telecom del valore di miliardi, salvo accordarsi col Governo detentore della golden share. Siamo cioè in grado di consentire ai nostri capitalisti di incamerare quattrino, sembriamo ripudiare investimenti sulle reti (che anzi pensiamo bramosamente adesso di nazionalizzare subito a spese dei soliti contribuenti) e guai a remunerare i piccoli azionisti.

Infine le preoccupazioni dei lavoratori, ormai più nazionalisti che marxisti, per cui il sindacato non intende rappresentare le opportunità di lavorare in un gruppo multinazionale.

La Prima Repubblica è stata abbattuta perché avrebbe il sistema delle partecipazioni statali avrebbe prodotto debiti e inefficienze. Per contro, la Seconda sta liquidando (liquidare = cessione di proprietà in cambio di cash) quel patrimonio di aziende generando plusvalenze a vantaggio delle cordate di “investitori”, a scapito del parco buoi degli azionisti e dei contribuenti. In questo senso il centrosinistra non può esimersi da una riflessione puntuale sulle politiche economiche e industriali condotte negli ultimi due decenni, dalla fiducia normalmente mal riposta nel nostro mercato libero, per innovare le modalità di gestione del patrimonio industriale in modo da porre al centro la tutela del merito, degli investimenti e del valore.

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