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Scritto da nel Internazionale, Numero 112 - 1 Agosto 2014 | 0 commenti

Si vis pacem

Si vis pacem

L’elezione di Barack Obama come primo Presidente di colore degli Stati Uniti aveva sollevato tante e tali speranze da recargli il Premio Nobel per la Pace già dopo pochi mesi. A distanza di 5 anni dall’inaugurazione del suo primo mandato siamo giunti al centenario dello scoppio della Prima guerra mondiale che, oltre alle pregevoli opere storiche che si possono acquistare in edicola, porta con sé alcuni pericolosi focolai di guerra nelle nostre vicinanze: in Siria e Iraq, al confine tra Ucraina e Russia, in Israele e nella striscia di Gaza, in Libia. Sono scontri primitivi, tra popoli che vivono le stesse terra da millenni, tra musulmani sciiti e musulmani sunniti, tra russi e ucraini, tra milizie più o meno regolari e più o meno irregolari. Sono ai confini dell’impero occidentale, in quelle province lontane dall’attuale Roma (Washington) che prima di altre sentono lo scorrere del tempo.

E’ molto diverso l’occhio con cui gli States guardano a se stessi rispetto a come li guardiamo noi, dall’Europa e dal mondo. Per noi gli Stati Uniti sono sia i liberatori dell’Europa dal nazismo, i nostri cugini alleati nonché lo Zio d’America, ma sono visti anche come i fomentatori del colpo di Stato in Cile e come gli oppressori violenti delle libertà dei popoli. Gli anni della dottrina Bush sono stati rappresentati come il volto violento dell’America, la faccia oppressiva che si nutriva di guerre rancorose contro l’Asse del Male incarnato in Afghanistan e Iraq, mentre l’elezione di Obama lasciava intravedere un radioso futuro di sviluppo. Non è stato così e non lo è stato per alcune ragioni che stanno segnando la storia contemporanea, e che già nel primo anno del suo mandato mostrava una prima avvisaglia con il silenzio rispetto all’Onda verde iraniana.

La prima è che il “terrorismo” esiste anche se il Presidente americano è “buono”. Possiamo discettare sul significato del termine, ma certo pensare che l’istituzione di un califfato che taglia la testa agli infedeli e che si vuole diffondere dai confini indiani ai nostri possa essere espressione di “autodeterminazione dei popoli” sarebbe una bizzarria da civiltà in estinzione. L’integralismo religioso ed islamico è una forma di inciviltà che nega le conquiste del secolo dei lumi di cui tanto andiamo fieri, che assegna alla Sharia il ruolo di Dio e Boia, che costringe alla fuga le tante persone disperate che scappano verso di noi inseguendo la libertà e la pace. O credere che chi millanta di volere il benessere della Striscia di Gaza continuando a sparare razzi verso Israele non sia il vero oppressore dei civili palestinesi che abitano quel territorio.

La seconda è che l’alleanza occidentale tra Europa e Stati Uniti non ha un asse strategico: lo si è visto drammaticamente in Libia, gettata dalla padella di Gheddafi direttamente nella brace degli scontri tribali; nella Siria, ove durante la guerra già scoppiata sul terreno la voce più forte che si è levata dall’Occidente è stata contro l’eventuale “guerra” da parte degli americani; in Iraq, dove alla detronizzazione di Saddam corrisponde oggi l’avanzata dei nuovi califfi; in Afghanistan, dove la ritirata suona come un via libera per i Taliban. Oggi l’iniziativa appartiene alla Russia di Putin, militarmente organizzata al confine ucraino e nel supporto a Bashar el Assad (che all’oggi addirittura pare sul campo l’unico bastione contro il suddetto califfato), e alla Cina, che si sta insediando commercialmente dall’Argentina all’Africa all’Europa, mentre l’Occidente risponde in ordine sparso con iniziative militari qua e là lasciate ai ricordi di grandeur, con i respingimenti nel Mediterraneo, con vane parole di pace che porgono l’altra guancia alla violenza.

In tutto questo quelle che anni fa erano le parole di speranza di Obama per un mondo nuovo sono solo un silenzio assordante, che a tratti pare imbarazzato, e mostrano il volto di un’America che guarda più al suo interno che fuori, ove il sogno della riforma sanitaria scricchiola sotto i clic che ingolfano i server mentre la ripresa economica si affida in maniera piuttosto “old-style” sul fracking delle risorse del sottosuolo.

Se Peter Pan può volare grazie a un pensiero felice, la real politik internazionale richiede ben altro e la tragica attualità ci informa di quanto la superiorità militare sia l’unica garanzia di sopravvivenza: “Si vis pacem, para bellum”. Un secolo dopo lo scoppio della Grande Guerra che concluse alla chetichella una grassa e ridente belle epoque è un monito da avere bene a mente onde evitare che la tragedia, su scala ancora maggiore rispetto al mondo di allora, possa ripetersi.

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