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Scritto da nel Internazionale, Numero 123 - 1 Ottobre 2015 | 0 commenti

I grappoli dell’ira

I grappoli dell’ira

Un’isola di centoventi abitanti. Trentacinque turisti nel picco massimo di presenze stagionali. Un sogno. Un’isola nascosta dal mare agli europei caciaroni, soprattutto italiani, quelli che altrove nel Mar Egeo vanno alla ricerca del turismo convenzionale in posti non convenzionali. Un’isola nascosta da quelli che vogliono la riviera romagnola con l’acqua trasparente, nascosta da quelli che cercano il paradiso per il loro sport preferito a danno del quadrupede che vaga brado o della tartaruga che vuole scegliere quella spiaggia. Un’isola nascosta da coloro che non s’interessano della scoperta del luogo perché vogliono solo il mare, come se fossero in un qualsiasi villaggio vacanze con la piscina che simula le onde. Un’isola nascosta da quelli che si schifano di una bestiolina nella stanza, da quelli che vogliono tanta acqua dove non ce n’è, da quelli che senza il WiFi non possono stare. Un’isola nascosta da coloro che non sono disposti a fare qualche piccolo sacrificio per raggiungerla; perché di barche per raggiungerla ce ne sono poche.

L’isola di cui sto scrivendo mi ha accolto per una settimana come se fossi un oggetto delicato, da maneggiare con cura. L’isola stessa mi ha cullato e coccolato e mi ha offerto tutto ciò di cui dispone, tra cui il suo mare turchese; mi ha offerto la visita di chiese con la chiave sulla porta perché chi volesse raccogliersi in preghiera potesse farlo in qualunque momento; mi ha offerto sentieri impervi, assolati e irrintracciabili perché le capre ne segnano tanti da confondere anche l’escursionista esperto. Mi ha offerto incontri umani di vera intensità, ricordandomi come la lingua non sia l’unico strumento della comunicazione e come l’ingegno muova i segni e gli sguardi di chi è ben intenzionato a conoscere e a offrirsi in conoscenza.

Insomma, sono stato in un luogo che spontaneamente sembra attrarre chi lo cerca e spontaneamente si nasconde da chi cerca altro; un’isola schiva e selvatica, di cui celerò il nome come si fa per gli esseri umani secondo le leggi sulla privacy. Un luogo che in effetti è quasi una persona, tanto riesce a offrire nella semplicità del suo insieme. Un luogo con cui dialogare, dunque; e infatti non ha mancato di offrirmi lo spunto per una riflessione e di rammentarmi qualcosa d’importante. Ogni giorno, in quest’isola idilliaca, sbarcano decine e decine di fuggitivi. Trenta, cinquanta, cento, duecento; a volte di più. Quasi ogni giorno, dunque, sull’isola ci sono più fuggitivi che residenti. Novantanove su cento sono siriani. Di ogni età, ma principalmente giovani coppie con figli. Arrivano che sulle spalle hanno uno zainetto; chissà che c’è, dentro; e in tasca uno smartphone con cui farsi un selfie nella baia. Una fotografia che un giorno si potrà mostrare ai parenti e agli amici. Quante storie da raccontare, per ciascuno di loro; la fuga dal paese, la traversata della Turchia, la traversata del mare. Tragitti veloci e scontati per gli occidentali; cosa può invece significare raggiungere la frontiera fra Siria e Turchia con fazioni contrapposte pronte a ogni violenza per l’estorsione? Cosa può significare percorrere i milleduecento chilometri che separano tale confine dalla costa di fronte all’isola da sogno? E poi, chissà cosa significa per ciascuno arrivare in quell’isola e pensare di essere sani e salvi, in un paese democratico e membro dell’Unione Europea, un luogo dove fare richiesta di asilo, un luogo dove si sarà difesi e aiutati perché rifugiati.

Queste donne e questi uomini arrivano straziati dalla fatica e dalla paura, dalla preoccupazione e dal dolore, per cercare un posto migliore dove vivere. Un posto dove non far rischiare la morte a sé e al proprio figlio, dove non ci siano incarcerazioni scriteriate e omicidi, dove la prevaricazione sia condannata e la repressione sia repressa. Arrivano in un’isola dove ci sono due agenti di pubblica sicurezza: un guardacosta con cappellino, maglietta e pantaloncini e un poliziotto senza divisa, perché si occupa di un sacco di altre cose come la raccolta dei rifiuti e la gestione del carburante. Entrambi disarmati, tanto che è stato previsto un contingente militare di sicurezza: un fuoristrada con ben due o quattro soldati. Come può non sembrare un sogno a chi non poteva uscire di casa per il coprifuoco? Come può non ridere di gusto un ragazzo che ha visto uccidere qualcuno davanti a sé? Come può non gioire un ragazzo che è nato in una casa pulita di un paese che funzionava ed è fuggito da una casa crollata per i combattimenti in un paese allo sfacelo? La sua grave stanchezza e le sue sofferenze sono vinte dall’immaginazione di un futuro migliore.

Sono sbarcati, eccoli. Li portano alla caserma dove vengono sommariamente identificati; il nome, una foto, e pronti ad aspettare la nave. A volte qualcuno cerca di scappare, ma non si può scappare da un’isola del genere, e così quel qualcuno finisce in cella; anche chi dà in escandescenze e chi si rifiuta di pulire dove ha sporcato può finire in guardina. L’indomani, in ogni modo, tutti vengono messi in fila e scendono al porto dove un traghetto di linea li porta in un’isola più grande. «E poi?» chiedo. «E poi, Atene» mi risponde il proprietario del minimarket, che col guardacosta la sa lunga. «E dopo?» proseguo. «E dopo, chi lo sa. Vogliono andare al nord, non è che l’inizio».

Allora mi rendo conto che queste persone non si fanno le foto perché sono arrivate in un luogo da sogno, ma perché vogliono essere felici. Non fotografano loro medesimi sullo sfondo di un paesaggio stupendo, ma si ritraggono felici d’essere su quella che presumono essere la via della felicità. Fotografano il loro coraggio e la loro determinazione a fuggire da un incubo in cui nessuno li aiuta. Fuggire è l’unica scelta: la scelta è un libero atto di volontà e in un luogo in cui le libertà individuali sono violentate e uccise, come le persone che le incarnano, non v’è possibilità di fare altrimenti. Combattere è impari; non c’è un solo fronte malvagio e l’uomo buono vive continuamente circondato dalla sopraffazione.

È per questo che una volta per tutte dobbiamo imparare a distinguerci da coloro che obbligano queste persone a fuggire. Non c’è molta differenza fra il disprezzo che si prova nell’uccidere e il disprezzo che si prova nel non salvare. Se non ci impegneremo a tendere la mano non ci dovremo stupire se un giorno non riceveremo una mano tesa: i grappoli dell’ira si gonfiano, come scrisse John Steinbeck, e prima o poi arrivano a maturazione. Sono succosi e dolci, e quando saranno pronti verranno raccolti.

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