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Scritto da nel Numero 96 - 1 Febbraio 2013, Politica | 0 commenti

Palingenesi della politica

Palingenesi della politica

“Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia. Qui ad Atene noi facciamo così”.
Questo è l’inizio del  famoso discorso fatto da  Pericle  agli Ateniesi nel 461 a. C.  e riportato da Tucidide nel 2° libro della  Guerra del Peloponneso.
Al tempo di Pericle  ad Atene  non c’erano i  partiti, ma c’era la democrazia,  che significa governo di popolo. Oggi in Grecia  ci sono i partiti !…
Anche in Italia oggi ci sono i partiti. Ma  quanti partiti ! E tutti  attraversano una grave  crisi d’identità, tutti  inchiodati alla ricerca del consenso invece di essere orientati al bene comune. I partiti non sono più movimenti di opinione e luoghi di formazione della  rappresentanza popolare, sono diventati pesanti apparati che alimentano svariate  branche di voraci nomenclature. Al loro interno la corruzione dilaga.
Il mondo si è globalizzato e  si sta rimescolando per effetto di continue trasformazioni geopolitiche; la scienza e  la tecnica hanno aperto nuovi orizzonti e più avanzati dinamismi. Invece il sistema dei partiti,  che trascina anche il nostro assetto istituzionale, si è sclerotizzato. Il ricambio si è bloccato, la democrazia è malata.
In questo scenario  desolato, si è determinato un generale disimpegno politico e sociale con la prevalenza di  atteggiamenti individualistici che spesso si intrecciano con un vieto populismo. Tutto ciò  ha fatto regredire i comportamenti sociali  verso una forma di isteria in cui l’apparire e l’avere hanno più rilevanza rispetto all’essere.
Cosa fare ?
Per  tentare di uscire da questa situazione bisogna anzitutto ricercare le cause che l’hanno determinata. E a  ben guardare si evidenziano occorrenze prossime,  ma si scoprono anche cause remote.
Tra le motivazioni prossime non bisogna trascurare l’usura del tempo: una fase storica si è conclusa, molti ideali sono tramontati,  si è  allentata la voglia di  fare che ha connotato la ripresa del dopoguerra e il dinamismo degli anni sessanta.
Ma la situazione attuale è anche sintomo  di un male antico che ha caratterizzato la politica italiana dopo la formazione dello stato unitario. Il sociologo tedesco Robert  Michels (che ha insegnato in vari atenei  italiani) già negli anni trenta del secolo scorso parlava di una anomalia, che egli chiamava “la legge ferrea dei partiti”. Secondo la teoria michelsiana, i partiti in Italia tendono a  concentrare il potere in cerchie ristrette e,  all’interno di queste cerchie, i vari leader polarizzano e bloccano le candidature allo scopo di implementare il consenso e di comprimere il dissenso.
A questo punto viene in mente l’esclamazione di Martin Heidegger: “Forse solo un dio ci può salvare”. Con questa  espressione il filosofo tedesco non intendeva  fare un’invocazione fatalistica, ma piuttosto segnalare il primato dell’etica per superare il disagio e le  contraddizioni in cui  si trovava ingabbiata la società in seguito  al disastro della seconda guerra mondiale.
In un passaggio del citato discorso di Pericle agli Ateniesi si  legge: “Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile”. E più avanti  continua: “Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei problemi pubblici per risolvere le sue questioni private”.
Nonostante il disorientamento generale, oggi come allora, non si può  fare a meno di fare politica.  Non si può e non si deve restare nello stagno, occorre entrare   nel fiume della storia. Per fare ciò non serve urlare e non serve neppure accartocciarsi nel bugno dello sdegno e  della depressione. Bisogna mettersi in viaggio tutti insieme. L’impegno politico è la testimonianza dell’esserci e dell’appartenenza, è  il modo di vivere  nel  contesto sociale e nello stato (“polis”). Bisogna fare  politica per   incoraggiare e organizzare le speranze degli uomini; fare politica per ricercare  soluzioni adeguate ai problemi emergenti nella società.
Ma questa co-operazione partecipata deve essere  anticipata e accompagnata  da una profonda rigenerazione dei partiti che  devono rimodularsi aprendosi a nuove forme di rapporti con la società civile.
E questo è possibile se siamo capaci di riscoprire i valori condensati  nelle radici culturali dell’umanesimo solidale che caratterizza la tradizione giudaico–cristiana dell’Occidente; sono i valori depositati sulle sponde del   Mediterraneo. Come italiani, inoltre, dobbiamo riappropriarci del patrimonio della nostra eredità culturale che il mondo ci invidia.
Questi valori riscoperti e condivisi rappresentano il presupposto per orientare le scelte politiche nella consapevolezza che  non  tutto ciò che è possibile è anche lecito.  Non tutto si può fare, ma soltanto . In estrema sintesi bisogna saper coniugare il processo evolutivo  con l’istanza etica e  coesiva.
In questa prospettiva appare attuale e degno di  riconsiderazione  “L’appello a tutti gli uomini liberi e forti” lanciato   da Don Luigi Sturzo dopo la prima guerra mondiale. L’accorato appello del fondatore del “Partito popolare” segnalava l’urgenza di restare untiti per un’azione politica centrata sulla      “persona  la  libertà  la famiglia e la lotta contro il clientelismo  la corruzione  la mafia”. L’appello sturziano era allora, e resta ancora oggi, un richiamo accorato al “dovere  di cooperare ai fini supremi della patria senza pregiudizi né preconcetti”.
“L’appello” di don Sturzo porta  la data del 18 gennaio 1919, ma sembra scritto in questi giorni.

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