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Scritto da nel Arte e Spettacolo, Numero 98 - 1 Aprile 2013 | 0 commenti

Il Dottore della canzone

Il Dottore della canzone

Aiutare i bisognosi è compito di papi e benefattori, ma anche l’arte può fare la sua parte. Si è spento in questi giorni (a 77 anni) l’artista, cantante, attore, autore, cardiologo, Enzo Jannacci e con lui il cantore dei “perdenti”. Non vogliamo cadere nella tentazione di tracciarne una pura biografia, reperibile ovunque, ma di là dal dolore che il lutto ci causa, vogliamo ricordare dell’artista, cantante, attore etc., l’aspetto profondo di quella sbirciata che Lui sovente porgeva al mondo degli esclusi. Il suo bisogno di comunicare certe amarezze quotidiane è riuscito a farci soffermare sull’angoscia di emarginati come “Il palo della Banda dell’Ortica”, come “Vincenzina e la fabbrica”, come molti altri, non troppo abili a salvarsi dalla propria inquietudine quotidiana, e forse come noi… L’ironia e la triste allegria, con la quale egli riusciva a manifestare certi drammi, richiedono un’osservazione attenta del suo infausto messaggio.

 

La Milano della musica e del teatro dei primi anni ‘60 ebbe Jannacci come caposcuola. Dal Santa Tecla al Derby l’arte espressiva del momento rispose all’istanza di cambiamento, richiesta dai tempi, con accadimenti artistici passati alla storia. Avveniva, infatti, che il Cabaret strizzava l’occhio al Jazz producendo effetti emotivi mai visti, che la canzone, fino ad allora prestata ad argomenti esclusivamente amorosi, assurgeva a dei livelli di protesta sociale, avveniva la “pace” di certa musica con la “Città dei Fiori” che grazie alle partecipazioni di Jannacci, Conte, Paoli e Vecchioni si arricchiva di sensibilità culturale, ed avvenivano evoluzioni musicali, di cui il “Dottore della canzone” fu interprete significativo.

 

Cinquant’anni di musica e cabaret, cinema e teatro, collaborazioni artistiche con nomi del calibro di Toffolo, Andreasi, Fo, Gaber ed altri, sono bastati per interpretare le metamorfosi strutturali della sua Milano e di tutto un Paese messo in moto dal canticchiamento collettivo di motivi come “Vengo anch’io, no tu no!”. Nelle sue canzoni gli emarginati trovavano il loro posto. “El purtava i scarp de tennis” (quando le scarpe da tennis non erano ancora prodotto griffato ma simbolo di povertà), narrava di un clochard drammaticamente scomparso, e nelle sue canzoni anche i potenti pagavano il loro fio: “Ho visto un re”.

 

Il successo, sempre fulmineo, faceva apparire queste “opere” come normali canzonette per la facilità con la quale venivano ascoltate e canticchiate. Questo immediato consenso popolare, questa orecchiabilità, ostacolava una riflessione pronta sulla drammaticità che quelle canzoni contenevano. Presto arrivava però il momento di elevare ogni pezzo al rango di capolavoro. Un po’ come avviene davanti alle gag del personaggio Ugo Fantozzi di Paolo Villaggio, di cui si ride e si sorride senza pensare, con la dovuta tempestività, ai drammi che queste gag racchiudono.

 

Più triste di un sorriso triste c’è la tristezza di non saper sorridere. Enzo Jannacci, un sorriso l’ha sempre dato, anche se triste…

 

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