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Scritto da nel Economia e Mercati, Numero 99 - 1 Maggio 2013 | 0 commenti

La Festa del Lavoro non è solo festa

La Festa del Lavoro non è solo festa

Anche quest’anno il 1° maggio si festeggerà la festa dei lavoratori e con essa si terranno decine di dibattiti sui temi del lavoro, sempre più all’ordine del giorno in questo lungo periodo di situazione economica difficile. Ormai è dalla fine degli anni del bum economico che in questo Paese non si riesce a trovare il giusto metodo per affrontare le difficoltà, che un numero sempre crescente di persone ha, nel trovare un posto di lavoro in grado di consentire all’individuo di sostenere dignitosamente la propria esistenza.

Il tema del lavoro è un tema complesso, articolato, caratterizzato da aspetti culturali, sociologici e individuali, oltre ad intrecciarsi concretamente con il contesto economico locale e globale.

Oggi nella parte di mondo sviluppato, che tutti conosciamo, si stanno manifestando le conseguenze di anni di scelte non fatte e della inesistente capacità di assumersi delle responsabilità da parte della classe dirigente. Troppo tardi si è preso atto che il lavoro stabile e garantito non poteva essere un diritto di legge ma doveva essere una conseguenza di politiche sociali ed economiche non dipendenti da una sola area economica del mondo, ma collegate allo sviluppo mondiale e influenzate da realtà tenute per troppo tempo ai margini e che oggi, non senza spregiudicatezza, vogliono imporsi come centro dell’economia anche passando attraverso la negazione dei diritti dei lavoratori.

Per troppo tempo ci siamo raccontati che il lavoro era una scelta individuale, quasi un capriccio, dipendente solo dalle aspettative dell’individuo, il quale, con leggerezza, negli anni, tradito da un sistema scolastico troppo ingessato ed automatico nei suoi passaggi, si è trovato solo ed abbandonato in una realtà economica che di lui e delle sue competenze di studio non sa cosa farsene. In queste condizioni solo i più forti sono stati capaci di reinventarsi, di capire che la società moderna premiava quelli che erano in grado di crearsi una professione, per gli altri solo flessibilità spinta o disoccupazione.

Preso atto che la situazione non è più sostenibile, bisogna impegnarsi nel rilancio di un sistema Paese che anche sui temi del lavoro deve sapersi spendere. Per farlo è opportuno azzerare tutte le posizioni di rendita acquisite, imporre il dialogo tra interessi fino ad oggi considerati contrapposti ed uscire da schemi e regole che per troppo tempo hanno ingessato l’Italia. Partendo da una rilettura del ruolo dell’istruzione superiore ed universitaria, intrecciandola maggiormente con le aspettative del tessuto economico, coordinandole con l’attività sindacale che troppo spesso si è dimenticata di chi deve ancora entrare nel mondo del lavoro e mettendo al centro di tutto questo una crescente responsabilità politica incentrata sul cambiamento, una responsabilità capace di sconfiggere vecchi miti, in grado di fare da arbitro in una situazione nella quale tutti pensano sia troppo comodo rimanere arroccati sulle proprie posizioni.

Il primo passaggio dev’essere una maggiore omogeneità normativa ed economica del mondo del lavoro, con la riduzione del numero di contratti nazionali e l’eliminazione degli steccati tra realtà pubbliche e private, oltre alla definizione di parametri in grado di riconoscere il merito e colpire ogni forma di abuso volto a screditare l’intero sistema dei rapporti tra lavoratori e datori di lavoro. A riguardo anche l’apertura a forme di contrattazione di terzo livelli e la riformulazione delle regole della rappresentanza del lavoro non deve più essere considerato un tabù. Il tema, anche nell’articolato contesto del lavoro, è la capacità degli attori impegnati nella ridefinizione normativa di creare quel consenso e quel riconoscimento indispensabile a supportare quel faticoso e complesso percorso di rilancio di cui questo Paese ha urgente bisogno, togliendo qualsiasi giustificazione di sorta a chi vorrebbe forzatamente spingere su interessi individuali e di parte in contrapposizione agli interessi generali. Se si continua a ritardare un intervento deciso e coordinato da parte di tutti gli attori, continuerà l’emorragia di aziende verso altri contesti economici e con essa la riduzione delle opportunità lavorative, interi comparti verranno a mancare e sarà difficile cogliere le sfide di nuove opportunità in grado di dare vita a nuove occasioni occupazionali di qualità. Nel contempo continueremo a perdere le teste migliori, che sceglieranno l’opzione estera, senza controbilanciare il fenomeno con un flusso qualitativo uguale e contrario. Chi resterà sarà costretto ad accettare condizioni lavorative sempre meno appaganti e sempre più borderline, accontentandosi di compensi poco dignitosi che sempre più andranno a comprimere i consumi, aggravando quel circolo vizioso che da ormai venti anni sta portando questo Paese alla deriva.

Nuove opportunità di lavoro passano da una ridefinizione della filiera dell’istruzione e dal radicale ripensamento delle politiche industriali di questo Paese, spingendo sempre più dalla parte di una proficua partnership tra pubblico e privato, senza ruoli di subalternità di quest’ultimo, ma anzi in un’ottica di reciproco arricchimento. Il tempo dell’attesa è finito, rimbocchiamoci le maniche e diamo tutti il nostro contributo per scongiurare una deriva che rischia sempre più di diventare irrecuperabile.

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