Capitale umano e risorse invisibili versus Industria 4.0: una sfida sostenibile?
“Che cos’è la qualità? Se non me lo chiedi lo so; ma se me lo chiedi non lo so più. Non è una sostanza e nemmeno un metodo, nessuno sa davvero che cosa sia. Non è una cosa ma un evento, implica il rispetto per la totalità e l’unicità della vita, e, di conseguenza, il rifiuto di ogni specializzazione: è la struttura che connette ogni cosa come gli ingranaggi della motocicletta insieme a Platone, Aristotele, Buddha e Lao-Tzu.
(“Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta“ (Robert Pirsing, 1974, Adelfi)
E’ indubbio che il nuovo modello organizzativo, sinteticamente connotato con l’espressione “Industria 4.0”, o quarta rivoluzione industriale, dovuto alla massiccia introduzione di dispositivi cosiddetti intelligenti che, consentendo una marcata integrazione “uomo-macchina”, comportano una sostanziale ristrutturazione dell’intero sistema dei processi lavorativi e non solo quelli di natura prettamente organizzativa. Al di là degli indubbi benefici al sistema socioeconomico nel suo complesso non sono infatti da sottovalutare, in quanto non evitabili, le ricadute presumibilmente non positive sulle risorse umane aziendali: limitazioni alla loro autonomia e perdita di potere decisionale, con prevedibili diffuse sindromi di “alienazione”, come peraltro avvenne nel corso della prima e seconda rivoluzione industriale, con il progressivo affermarsi del modello ford-taylorista. Tutte patologie di natura relazionale che furono in parte temperate nel corso della terza rivoluzione, quella della cosiddetta economia accelerata o dei servizi, con l’affermarsi in molte organizzazioni – per quanto in modo parziale e sovente rapsodico – della cultura della Qualità con la sua particolare attenzione verso il capitale umano.
Quale proposta per un possibile superamento di dette prevedibili criticità, una volta che il modello organizzativo sarà a regime (visione umanistica dell’azienda versus tecnologia), con il presente articolo si suggerisce di recuperare e cercare di applicare, questa volta in modo integrale, quei principi fondamentali che costituiscono le fondamenta dello statuto epistemologico della Qualità Totale. Valori che sembrano essere stati dimenticati, o rimossi, non solo dal mondo imprenditoriale ma anche da quei “cultori della materia” che dovrebbero presidiare alla loro diffusione Dopo una si spera non inutile rivisitazione, per quanto sommaria, delle principali motivazioni che, a nostro parere, giustificano l’attualità e la praticabilità di tali principi, ci soffermeremo in particolare sul fattore primario di cui le persone dispongono e definite da autorevoli fonti “risorse invisibili” (1) che, se abilmente utilizzate dal management, potrebbero fornire una fattiva risposta per il superamento della problematica in essere.
Storicamente, il management ha da sempre grande fiducia nella struttura (e nelle sue componenti hard) quale principale strumento di sviluppo organizzativo. Ha concepito nel tempo diverse tipologie di modelli: gerarchiche, divisionali, a matrice, ecc, quali unità funzionali strategiche che si sono rivelate rispondenti alle sue esigenze per lungo tempo; in molti casi, però, si è dimostrato incapace di rinunciare a queste idee consolidate e di rinnovarsi, quando diventavano obsolete a causa di cambiamenti provenienti dal mondo esterno. Conseguentemente, i comportamenti organizzativi dei manager, con i loro rapporti di autorità, di fatto sostanzialmente top-down, rimanevano immutati.
La visione della Qualità Totale a cui appunto ci ispiriamo, suggerisce, anzitutto, che le organizzazioni, piuttosto che rimanere orientate nella loro azione sui processi operativi verticali fondati sull’autorità della struttura gerarchica, debbono privilegiare quelli orizzontali. Processi che stimolino la creatività delle “risorse invisibili”, ovvero creatività, proattività unita a spirito di iniziativa, e un forte impulso all’imprenditorialità.
Ma quali sono i presupposti per lo sviluppo di questi processi?
Il top management, deve incoraggiare e sostenere le iniziative provenienti dal basso, rinunciando al pregiudizio, o alla errata credenza che le persone al vertice siano nella posizione migliore per esprimere capacità decisionali. E affinché il processo imprenditoriale venga esercitato dalla base, è necessario che il ruolo del manager di prima linea si trasformi, da puro esecutore/traduttore di scelte imposte dall’alto, a promotore di iniziative per fare fiorire una mentalità imprenditoriale diffusa, caratterizzata da una forte collaborazione fra tutte le risorse umane.
Conseguentemente, come sostiene Yosio Maruta, un importante manager giapponese e profondo conoscitore della Qualità “se qualcosa va male in un reparto, le persone degli altri reparti devono essere messi a conoscenza del problema e fornire aiuto senza che questo venga richiesto”
Detto in altri termini, le azioni primarie che debbono concorrono a realizzare il paradigma complessivo sono allora le seguenti: estensione dell’approccio “qualitativo” a tutti i livelli organizzativi; questo comporta: diffusione massima dei processi relazionali fra le risorse umane e strategia del miglioramento continuo.
Queste due condizioni organizzative si pongono in un’ottica alternativa rispetto al precedente way of thinking (ea qualsiasi innovazione che si basi unicamente sulla sola “automazione” dei processi senza una debita riflessione su quanto andiamo esponendo) modificando, nel contempo, alcune consolidate convenzioni mentali per orientarle nella seguente direzione: il potere decisionale deve averlo chi ha più conoscenze (know-howprofessionale) e non chi è chiamato a dirigere in forza di pure ragioni formali; per questo motivo, secondo la cultura della Qualità, il rapporto fra potere e responsabilità deve continuamente essere rivisitato e, conseguentemente, ricomposto.
Ciò in quanto essa focalizza soprattutto l’attenzione sul “come” piuttosto che sul “cosa”, cioè sui comportamenti organizzativi e le conoscenze necessarie per raggiungere i risultati, al di là del risultato stesso che rimane comunque strategico; tende a privilegiare le perfomance di gruppo enegoziate fra i vari livelli e funzioni aziendali; spinge alla collaborazione interfunzionale ponendo l’enfasi sui processi, sia interni che esterni, da cui deduce parametri ed obiettivi.
E affinché l’organizzazione possa funzionare al meglio delle sue potenzialità, é necessario non considerarla unicamente come un freddo organigramma o una procedura puramente formale da rispettare pedissequamente, bensì come una rete di persone che cooperano, a supporto ed al servizio l’una dell’altra, con l’intento di perseguire uno scopo comune.
Questo perché, nel modello concettuale della Qualità, di cui i processi relazionali costituiscono una componente essenziale, tendono a ridimensionarsi le posizioni e i ruoli che si legittimano soltanto sul mero controllo dell’applicazione di decisioni – assunte peraltro ad alto livello – e, al contempo, si richiedono nuovi skill professionali, quali la di lavorare in team e di “autoregolarsi” agendo in autonomia.
Il motivo per cui l’organizzazione gerarchico funzionale di tipo fordista sviluppata dalla teoria classica oggi non è più competitiva – e ahimè ancora viva e vegeta in tante realtà – risiede nel comportamento del management intermedio e di prima linea, orientato soprattutto a rispondere alle esigenze espresse dagli alti vertici della gerarchia e non a quelle del cliente, sia esso esterno che quello interno rappresentato dal personale. Parafrasando Jack Welch, già Ceo e presidente della General Electric, quella “gerarchico funzionale” è un’organizzazione “con la faccia rivolta al Ceo e la schiena al cliente”.
Per superare queste criticità, la cooperazione e l’azione individuale, centrate sulle “risorse invisibili”, debbono diventare assunti impliciti della cultura aziendale; per ottenere collaborazione occorre abitudine ad intraprendere numerose relazioni orizzontali, verticali ed oblique, e le persone debbono imparare ad assumere responsabilità oltre gli angusti limiti di ruolo loro assegnati per andare “overexstension” che significa andare oltre le proprie forze ovvero “oltre misura”. Le imprese, infatti, che si pongono obiettivi “ragionevolmente destabilizzanti” sono maggiormente in grado di adeguarsi continuamente e celermente al proprio mercato di riferimento, come quello dell’informatica, della robotica, delle comunicazioni e oggi di quel sistema in continua evoluzione tecnologica definito industria 4.0. Solo in questo modo si dà vita, nel campo dell’economia industriale e dei servizi all’aforisma: “ciò che l’uomo vuole raggiungere deve essere oltre la sua portata”; in quanto l’impresa che non conosce o non applica questa regola si esaurirà per mancanza di stimoli (Itami, 93) (2). Un simile atteggiamento si può verificare solo in ambienti basati sulla reciproca fiducia fra tutte le parti interessate, imparando ad applicare metodologie non solo “logico/quantitative” tipiche dei processi di automazione (che non possiamo esaminare per i limiti imposti dallo spazio a disposizione), ma soprattutto di tipo “intuitivo/qualitativo”.
Tradizionalmente le aziende sono state abituate a gestire le loro strategie in termini esclusivamente quantitativi – poi monitorate con asettici strumenti statistici più o meno sofisticati – in quanto i relativi comportamenti organizzativi si rapportavano, o meglio nascevano, a fronte di contesti di mercato relativamente stabili ed omogenei, con dinamiche facilmente pianificabili nel tempo.
La crisi del modello basato sulla produzione di massa ha reso necessario rivisitare, nella sostanza, la vecchia filosofia che si fondava sul dominio assoluto dell’Azienda/fabbrica sulla società: chi produceva o erogava servizi, disponendo di un mercato pressoché illimitato, dove l’offerta era inferiore alla domanda, stabiliva a priori i volumi da produrre e/o i servizi da erogare in base a ben definiti parametri pianificatori e gestionali. In questa logica la programmazione d’impresa considerava la società e il relativo mercato come variabili dipendenti (Marco Revelli, 1995).
L’Azienda del nuovo modello produttivo post fordista, di cui “industria 4.0” costituisce la più recente innovazione, è costretta a misurarsi con una economia in forte crisi di domanda che non assorbe più totalmente ciò che da essa proviene.
Si assiste così ad una fortissima resistenza al tradizionale dominio della razionalità organizzativa che non consentendo più la pianificazione lineare, costringe la struttura produttiva ad adeguarsi, di volta in volta, alle mutevoli esigenze di una clientela molto più consapevole ed informata che in passato.
Siamo, in altri termini, di fronte alla crisi irreversibile della stessa idea di quella razionalità burocratica studiata dal sociologo Max Weber, tipica dell’economia classica, che, per il suo superamento, richiede una coerente risposta attraverso il recupero integrale di quei valori che sono intrinseci alla “soggettività” della forza lavoro, segnatamente alle sue peculiarità di intuito, immaginazione e creatività prodotte dal lateral thinking; tutte attitudini e comportamenti per anni sacrificati a modelli organizzativi che richiedevano soprattutto capacità espressive di tipo logico razionali meramente esecutive, conseguenti all’attuazioni di strategie manageriali, per così dire, “preconfezionate”.
Occorre allora che la pianificazione strategica venga integrata dal pensiero strategico (strategical thinking). Occorre sviluppare nuovi atteggiamenti e, conseguentemente, più aggiornati comportamenti indirizzati verso una managerialità dinamica, utilizzando tools operativi che consentano di meglio approcciare le nuove problematiche del lavoro. Occorre che i manager abbiano metabolizzato e siano in grado di utilizzare pienamente e in modo sinergico due fattori indispensabili per ottimizzare le loro capacità professionali: intuito e pensiero logico.
Infatti, grazie al primo essi sono in grado di garantire – a se stessi e alla struttura che sono chiamati a governare – un approccio creativo, mentre quando si affidano al secondo forniscono una risposta sistematica al “mestiere” per il quale sono stati chiamati, cioè alla soluzione di problemi.
Si può quindi sostenere che attraverso l’uso corretto del pensiero logico (che ha sede nell’emisfero sinistro del cervello) realizzando strategie sistemiche volte a compatibilizzare razionalmente i portati della creatività e dell’intuizione (emisfero destro), il manager è in grado di ottenere il successo atteso (3).
Gli strumenti per tale azione sono naturalmente quelli tangibili, come i tradizionali fattori della produzione enucleati dall’economia classica: il capitale, la forza lavoro, natura e tecnologia; altri, invece, non meno importanti, sono intangibili ma altrettanto efficaci, come afferma Michael Porter, una autorevole fonte di studi manageriali; in quanto, pur non avendo come riferimento risorse materialmente quantificabili, possiedono come collante la capacità di permettere alle risorse umane di esprimere al massimo livello le loro potenzialità professionali. Ad esempio: la learning organisation, ovvero la capacità di apprendere, fare apprendere ed applicare continuamente nuovi e più efficaci comportamenti organizzativi, attraverso una leadership puntuale e dinamica e la sensibilità relazionale, ovvero la capacità di entrare in empatia con il proprio interlocutore, rispettarlo nei suoi tratti caratteriali e valorizzarne la personalità;
Ora, detto in altro modo, le modalità di presidio dei fattori della produzione o, per continuare la metafora, le risorse materiali, visibili e tangibili di cui l’azienda dispone, costituiscono il patrimonio classico dell’agire manageriale; ma, se si vuole realmente avere successo, ovvero se un’impresa vorrà essere veramente competitiva in ambienti caratterizzati da un’economia di mercato in forte concorrenza, possedere soltanto quegli strumenti è indubbiamente una condizione necessaria ma, a nostro parere, non più sufficiente, in quanto la progressiva ed inesorabile erosione degli spazi di intervento a cui stiamo assistendo la pone, rispetto alle aziende concorrenti, sullo stesso piano in termini di potenziali risorse materiali disponibili. Negli ultimi anni, infatti, si è assistito alla messa a disposizione delle tecnologie più avanzate di chi ne abbia necessità a costi in progressiva decrescita, perché in concomitanza a quello del denaro: fenomeno che, come noto, si è peraltro consolidato per effetto del quantitative easing ad opera della Banca Centrale Europea.
Utilizzare le risorse invisibili è quindi per il manager una competenza specifica che attiene alla sua leadership. Naturalmente la chiave del successo è costituita dai suoi collaboratori: “ce la faremo solamente se ogni nostro collaboratore si riconoscerà in questa nuova mentalità e se si comporterà di conseguenza” (Porter, 1982).
E’ compito quindi della funzione del Personale presidiare le componenti creative delle risorse umane presenti in varia misura e in modo trasversale in tutti i settori. Una necessità questa (e una problematica) che non viene intercettata da quelle imprese, le cui funzioni, fra loro separate e non “processive”, non comunicano l’una con l’altra.
Nelle risorse umane, infatti, convivono attitudini latenti che non vengono incentivate a fornire risposte adeguate in questo senso, a causa di una visione angusta e di corto respiro che ignora l’utilità pratica di applicare il cosiddetto modello “T”. Vediamo di cosa si tratta.
Il concetto di professionalità può essere rappresentato come una “T”, dove la linea verticale indica le conoscenze apprese in determinate discipline, dopo un certo percorso di acculturazione scolastica, unitamente alla capacità di metterle in pratica. La linea orizzontale, invece, indica la facoltà di integrare i propri saperi con quelli provenienti da altre realtà; ovvero di collaborare fattivamente con chi possiede altri profili formativi ed esperienziali, ponendosi così nell’ottica di accettare e condividere empaticamente lo statuto epistemologico di discipline differenti rispetto alle proprie.
Si tratta, in sostanza, di imparare ad interagire con gli altri, siano essi clienti esterni che interni, andando oltre gli schematici confini delle proprie specifiche conoscenze e abilità: in una parola realizzare la cosiddetta “trasversalità”, che significa utilizzare al meglio le “risorse invisibili” che sono in noi.
Socrate diceva: “so di non sapere”, ovvero la conoscenza più autentica si acquisisce solo dopo avere preso coscienza di quanto sia esteso il campo della propria ignoranza. Allora le imprese, se vogliono vincere le sfide rappresentate da Industria 4.0, debbono sempre più esercitare un ruolo di “mediazione”, dove convergano le competenze professionali più diverse, multi e trans-disciplinari, per meglio rispondere alla realtà effettuale.
Questo perché quando il pensiero logico viene posto in modo acritico al servizio della tecnica e della sua inarrestabile evoluzione non è più al servizio dell’uomo, piuttosto è l’uomo che è posto al servizio della tecnica, correndo il rischio di diventare degli autentici “analfabeti emotivi”, sempre più deprivati di percezioni intuitive, di sensazioni e di sentimenti, per finire a non comprendere fino in fondo il vero ruolo della “persona” in azienda e ad adattarsi, in modo passivo, alle indubbie comodità che la tecnica offre.
Se è Il solo pensiero logico a guidare la tecnica, l’azienda diventa ineluttabilmente il luogo della razionalità assoluta, in cui non c’è spazio per le immaginazioni creatrici, dove l’efficienza fine a se stessa subordina i bisogni di relazione e di comunicazione, propri delle risorse umane, alle esigenze specifiche dell’apparato tecnico. Kant in merito ci sollecitava a non trattare l’uomo come mezzo ma come fine. Purtroppo, però, la sola tecnica non ha fini da realizzare, ma solo risultati da perseguire: risultati che non sono quasi mai la conseguenza di progetti etici, perché scaturiscono normalmente dalla mera applicazione di asettiche procedure. La tecnica, sosteneva Heidegger, non pensa, si limita soltanto ad adeguarsi in modo acritico alla realtà contingente.
Se, come sosteneva Hidegger, solo un Dio ci potrà salvare e questo Dio non è la tecnica (“Essere e tempo”, 1927), noi suggeriamo, molto più modestamente e con un pizzico di provocazione dato l’impari confronto:solo la Qualità, con i suoi fondamentali valori umanistici centrati sul grande potenziale insito nel capitale umano, sarà in grado di fornire una risposta efficace per contribuire a vincere una delle sfide del nostro tempo: le problematiche sorgenti dalla non eludibile automazione dei processi produttivi.
D’altra parte, come ha scritto il guru giapponese della Qualità Taiichi Ohno:
“le capacità delle risorse umane possono estendersi illimitatamente quando le persone cominciano veramente a pensare”, creando così una simbiosi virtuosa fra ragione e sentimento, vissuta come una benefica contaminazione propulsiva, aggiungiamo noi.
Note
(1) Pensiero logico e intuitivo, ovvero razionalità e creatività uniti da uno spirito di iniziativa e da un forte impulso all’imprenditorialità ( Cfr. Edward de Bono, “Il pensiero laterale”, Rizzoli). Nel testo vengono descritte varie tecniche per pensare in modo diverso e creativo, spiegando cosa è il pensiero laterale, ovvero il pensiero che tiene conto della molteplicità dei punti di vista per risolvere un problema, piuttosto che fornire soluzioni unicamente in chiave logica.
(2) Overextension: In filosofia, secondo il pensiero esistenzialista ”essere nel mondo” consiste col prendersi cura delle cose ed “essere con gli altri”, ovvero “coesistere”. La consapevolezza e la sollecitudine rappresentano pertanto i sentimenti rivelatori della nostra realtà esistenziale che ci fanno prendere coscienza di appartenere ad un progetto proiettato verso un futuro sempre più sfidante che, in quanto tale, tende a superare il fatto contingente e ad andare oltre la realtà effettuale, dandole un significato razionale in modo da poterla padroneggiare con la volontà. Andare appunto verso “l’oltrepassamento”, come sostiene Heidegger. Significa anche fare proprio l’ottimismo della volontà contro il pessimismo della ragione in senso gramsciano e, come avrebbe detto il più realista dei sociologi dell’organizzazione, Max Weber, l’uomo non riuscirebbe a raggiungere il possibile se non tentasse l’impossibile.
(3) Il grande filosofo illuminista Emanuele Kant, nella sua opera fondamentale “La critica della ragion pura” sostiene che “le intuizioni senza i concetti sono ciechi, ma i concetti senza le intuizione sono vuoti”. Questa celebre frase sintetizza il funzionamento del processo conoscitivo. Le intuizioni (tipiche risorse invisibili), ovvero le percezioni sensibili della realtà, rappresentano infatti una condizione necessaria ma non sufficiente, poiché una mera intuizione che non sia guidata da una adeguata concettualizzazione non potrà mai diventare vera conoscenza; parimenti, però, sempre secondo Kant, non possiamo pervenire a un vero sapere limitandoci unicamente ai nostri concetti logico deduttivi. Pertanto, per giungere ad una autentica conoscenza, intuizione e intelletto debbono operare congiuntamente e “collaborare”. Il concetto è stato anche sostenuto dall’altro importante filosofo della scienza Ludwing Wittgensten, il quale, nella sua opera fondamentale: “Tractatus logico-philosoficus” dichiarava, fra l’altro, di diffidare dei “sistematici”, perché la vita non è un flusso continuo ma discontinuo, che, come tale, non è possibile comprendere utilizzando unicamente paradigmi interpretativi logico-matematici. .
Bibliografia
Omnias A., Il linguaggio della Qualità Totale, Torino, 1991
Itami H, Le risorse invisibili, Isedi, Torino, 1993
Gallino L., Informatica e qualità del lavoro, Enaudi, Torino,
Quaglino G.P. e al., Gruppo di lavoro – Lavoro di gruppo, Cortina, Milano, 1992
Senge P., La quinta disciplina. L’arte e la pratica dell’apprendimento organizzativo Sperling & Kupfer, Milano, 2006
Toffler A., The third Wave, Collins, New York, 1980 (tr.it. La terza ondata)
Sperling & Kupfer, Milano, 1980
Imai M., Kaizen, Lo spirito giapponese del miglioramento, SEME, Milano, 1986
Crozier M., L’impresa in ascolto, SEME, Milano, 1990
Deming W.E., L’impresa di qualità, Petrini, Torino, 1991
Porter M.E., Ia strategia competitiva, ETC, Bologna, 1982
Pirsing M.R., Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, Adelfi,
Milano, 1990