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Scritto da nel Numero 134 - 1 Novembre 2016, Politica | 0 commenti

Il passo indietro

Il passo indietro

In settant’anni di repubblica abbiamo visto avvicendarsi governi d’ogni genere, retti o sostenuti da gruppi politici davvero d’ogni genere. Nel 1960 il – fortunatamente – brevissimo governo a guida di Fernando Tambroni ebbe la fiducia del parlamento con i voti fascisti del Movimento Sociale Italiano. Per tutti gli esecutivi ascrivibili al pentapartito è evidente come anime politiche con idee e aspirazioni diverse fra loro si sostenessero per mantenere il potere, fatto che condusse l’Italia nel baratro di corruzione degli anni Ottanta e nel tracollo istituzionale dei primi anni Novanta.

A un mese dal referendum ormai personalizzato da Renzi, e a poco gli giova cambiare idea adesso, si assiste a una triste tiritera di voci favorevoli o contrarie a questo o quel tratto di simpatia o antipatia del presidente del Consiglio, senza mai analizzare gli argomenti di una riforma che pure necessiterebbe di molte spiegazioni (presso la Biblioteca della Camera è disponibile un utile documento che raffronta, su fogli a doppia colonna, gli articoli oggetto di modifica e le modifiche apportate. Basta leggerlo con attenzione per vedere quanto siano pretestuose tanto le ragioni del sì quanto quelle del no). Non si fa che cercare di far proseguire l’azione di governo, e d’altra parte di far cadere il governo.

Come scrive Pippo Gurrieri sul numero di ottobre di Sicilia Libertaria, “tutto questo non ci entusiasma e non ci ha mai entusiasmato” perché “oggi una caduta di Renzi agevolerebbe un governo fortemente populista e illusionista del Movimento 5 Stelle oppure una coalizione di destra. Dove sarebbe il cambiamento, stretto tra un populismo legalitarista e razzista e un neoliberismo continuista?”

Una domanda che ci possiamo riproporre riferendola alle elezioni presidenziali negli Stati Uniti d’America, con le dovute differenze. Hillary Clinton e Donald Trump difendono interessi di gruppi diversi ma condividono la convinta prosecuzione di un neoliberismo continuista; gli elettori sono stretti fra un populismo razzista e un populismo di bell’aspetto, mentre nessuno dei candidati può vantare una condotta morale senza macchie. Ma dove sono i programmi? Come mai nei dibattiti e nei comizi i due hanno parlato poco di quel che intendono fare alla Casa Bianca, e ancor meno di come farlo?

Andiamo a vedere allora i siti dei candidati. Quello di Hillary Clinton si apre con una pagina di dialogo: “Chip in and automatically be entered to win a trip to Hillary’s Election Night party”, che significa paga e puoi essere sorteggiato per partecipare alla festa dell’elezione di Hillary. Entro nel sito cliccando su un tasto piccolino che dice “continue to hillaryclinton.com” ed ecco il programma della signora: un video in cui si rimarcano le prese di posizione più assurde e le uscite più infelici dell’avversario è l’apertura di una homepage divisa a metà fra la demonizzazione – mica sbagliata, eh – di Trump e foto di lei da giovane fra i bambini. Perfino sul pié di pagina del sito c’è scritto che è “finanziato da Hillary for America, una campagna di gente comune con più di tre milioni di donatori che vogliono eleggere Hillary Clinton (e tenere Donald Trump fuori dalla Casa Bianca)”. Clicco su issues e noto che gli argomenti di riforma sono davvero tanti, ma per ogni questione si parla di cambiare o migliorare senza specificare un solo approfondimento sul come farlo. Emblematico il capitolo della povertà, che al suo interno racconta come nei primi cento giorni di mandato (eh già, anche da loro c’è quest’idiozia) “Hillary will fight to make major new investments in infrastructure, manufacturing, clean energy, small business, and more”. Neanche a tradurlo, tanto pressappochismo; ma come ciliegina sulla torta voglio aggiungere il teaser del capitolo Poverty: “a nessun bambino dovrebbe mai capitare di crescere nella povertà”. Io trovo che trattare un argomento del genere con tanta retorica sia nauseabondo.

Non va meglio, come è ovvio che sia, sul sito di J (il middle name: mi piace chiamarlo Jay come chiamavamo Bush W, Dàbliu). Dopo una pagina iniziale di captcha check (con due soli pulsanti in vista, shop e donate) si accede a una homepage scarna, con qualche video, richieste di denaro, familiari in bella vista e qualche riga d’apertura di una retorica tanto trita da rendere vomitevole persino riproporla al lettore dell’Arengo (con il quale mi scuso anche del passaggio dal nauseabondo al vomitevole, ma il campo d’azione è davvero questo). Nel menù ci sono le positions di Trump sui singoli temi, dalla guerra alla salute: cliccateci, è uno spasso. In ogni pagina che si apre si parla della visione di Donald Trump; quando effettivamente riesce a comunicare un punto di vista, è in genere agghiacciante per l’arretratezza o l’ignoranza che esprime.

In tutto ciò mi chiedo: quanti sanno che i candidati alla presidenza degli Stati Uniti d’America sono sei? Ci sono anche Jill Stein dei Verdi, Gary Johnson del Partito Libertario (attenzione: il nome ha poco a che vedere con la benevola accezione anarchica, è una specie di Partito Radicale), Darrell Castle del Partito della Costituzione (un accrocco di begardi destrorsi dalla faccia pulita) ed Evan McMullin, ex repubblicano che corre come indipendente.

 ***

Siamo partiti dal referendum sulla riforma Renzi-Boschi, che in Italia si terrà il 4 dicembre, per poi raccontare la situazione negli Stati Uniti, i cui cittadini vanno al voto l’8 novembre per eleggere il quarantacinquestimo presidente. Che alternativa hanno fra Clinton e Trump, tra nascondere il male e ostentarlo? Quali sensibili differenze ci sono fra chi non ha idee precise e proposte importanti e chi vuol stabilizzare la garanzia dei propri interessi? La risposta è semplice: per la popolazione, nessuna. Nessuna differenza nella vita quotidiana, nessun aiuto nelle difficoltà. Non è una sfida con la storia, come viene dipinta; è una sfida fra titani della conservazione.

Rimane la possibilità di astenersi dal voto, sperando che lo facciano davvero in tanti e che questo crei una crisi di legittimità del potere. Un po’ come qui da noi, del resto, dove la legittimità del potere è messa in crisi da una reggenza povera di contenuti e ricca di grandiloquenza. All’indomani della morte di una figura come Tina Anselmi, nome di staffetta partigiana Gabriella, sembra che tutti i pezzi buoni della vecchia repubblica vadano in frantumi. E non prendere parte agli insulti portati da entrambe le parti (sì e no) all’alto senso di una Costituzione nata dal sangue sembra l’unico gesto di pieno rispetto che si può compiere. È togliersi il cappello entrando in un luogo sacro alla socialità, è cedere il passo a un’anziana signora perché sia più salda nei pochi passi che le restano.

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