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Scritto da nel Numero 138 - 1 Marzo 2017, Politica | 0 commenti

Va be’, ricapitoliamo, facciamoci del male

Va be’, ricapitoliamo, facciamoci del male

Ora, se uno davvero la dovesse raccontare a chi fosse del tutto estraneo ai fatti della politica italiana ci sarebbe da sentirsi in un gioco tragicomico. Ricapitoliamo.

Alle elezioni politiche di quattro anni fa si presentano vari fronti politici. Uno dei principali vince le elezioni con una coalizione composta di un partito principale (il PD), uno di rilievo secondario (SEL) e varie liste d’appoggio di scarso valore elettorale. I seggi alla Camera sono assegnati secondo un criterio maggioritario, per cui la coalizione riceve più della metà dei posti; ma al Senato, che viene eletto con un altro sistema, la coalizione in questione non ha la maggioranza necessaria per ricevere un voto di fiducia. Alle consultazioni indette dal presidente della Repubblica è ben presto chiara l’intenzione di non tornare alle urne ma di nominare un premier che formi un governo di “larghe intese”: l’incarico è affidato a Gianni Letta, figura di spicco del PD, che decide di rompere la coalizione uscita vincente dalle urne. SEL infatti non appoggerà un governo condiviso con la destra e viene accusata di irresponsabilità, perché fuori dalla coalizione non sarebbe nemmeno riuscita ad avere deputati; altresì SEL accusa il PD di doppiogiochismo, perché senza i voti di SEL la coalizione di centro-sinistra non avrebbe superato quella di centro-destra, il PD non avrebbe avuto accesso ai seggi previsti come premio di maggioranza e l’incarico di governo sarebbe andato a Silvio Berlusconi. Proprio con il partito di Berlusconi, il PdL, il PD si allea per dare fiducia al governo di Gianni Letta, che riceve anche l’appoggio delle liste che avevano presentato la candidatura di Mario Monti ottenendo un buon risultato. In sostanza, Letta va a presentarsi alla Camera certo di ottenere la stratosferica cifra di 457 sì alla fiducia su 630 deputati, un incredibile 70 e passa per cento che se ne infischia del mandato popolare e che solo a parole garantisce stabilità. L’esperienza durerà infatti solo dieci mesi.

È lo stesso partito di maggioranza a sfiduciare il suo governo, non in una sede istituzionale ma in una direzione di partito: Gianni Letta viene cacciato da Matteo Renzi, segretario del PD, che ha l’obiettivo di salire al Quirinale per ricevere egli stesso un nuovo incarico. Sa di poter contare comunque su un largo appoggio, in particolare da quella parte di PdL che fa capo ad Angelino Alfano – che resta come ministro dell’Interno – che va a formare il NCD a seguito dello spaccamento della lista di centro-destra e della riformazione di Forza Italia. Sa anche che Letta non sta mica facendo male; c’è più di due terzi del parlamento che lo sostiene e lui ha il carisma per portare avanti determinate riforme, quindi chiudere l’esperienza di governo e tornare alle urne; un po’ quello che gli è stato chiesto, in fin dei conti. Ma Renzi non può perdere quest’occasione, deve coglierla per governare, perché non sa se gli ricapiterà: la maggioranza a Montecitorio si spende bene, una grande vittoria percentuale in una consultazione elettorale europea dal numero di votanti basso si spende benissimo, la sua oratoria e la capacità di portare l’esperienza del governo comunale si spendono ancor meglio.

Insomma, in un gran baccano si mischiano le carte in tavola sperando che nessuno se ne accorga; ma i ministri cambiano e cambia la leadership, e questo fa sì che il vento di novità che il segretario del PD sembra portare con sé spolveri una strada lastricata di mezzucci, di egocentrismo, di carenza di un sostrato elettorale basato sull’approvazione di un programma. Evidenze che presto cominciano a balzare agli occhi.

In tre anni quello di Renzi diviene il quarto governo più duraturo della storia repubblicana. Sappiamo bene cosa succede – e cosa no, anche se non è molto – e quali politiche vengono adottate. Non si può dire che non vengano effettivamente fatte delle cose; si tratta di provvedimenti più o meno giusti o sbagliati e più o meno efficaci, dai famosi 80 euro allo stop alle tasse agricole, dall’abolizione di Imu e Tasi al tetto agli stipendi della Pubblica Amministrazione, dal Jobs Act alla riduzione del canone Rai, dalla fine dell’Irap e dal taglio dell’Ires all’aumento delle pensioni minime. E poi, in mezzo ad altri provvedimenti come la penalizzazione di alcuni reati ambientali, la riorganizzazione della gestione museale nazionale e la (tanto) contestata (come sempre) riforma della scuola, prese di posizioni importanti come quella che consente le unioni civili; fatta male, fatta in parte, ma intanto messa a dimora. Wow, vien da esultare, un governo europeo; ma allora per quale ragione dopo tutto ciò cade?

Una premessa. Il governo Renzi dovrebbe cadere perché nella spettacolarizzazione di scelte che avvicinano l’Italia al disegno europeo – su cui è bene non esprimersi in questa sede: è argomento troppo impegnativo per un semplice commento – perde completamente di vista l’interesse delle persone. Perde di vista la difesa dei deboli in una gestione politica che guarda al grande capitale invece che alla tutela dei diritti indispensabili per i lavoratori in crisi economica, perde di vista la necessità di garantire alle persone una dignità sociale prima che la possibilità di far riprendere i consumi, perde di vista l’importanza di proteggere il risparmio di un operaio invece del lucro di un banchiere, perde di vista il bisogno di chi subisce disastri naturali di essere aiutato coi fatti prima che incoraggiato a parole, perde di vista l’opportunità di patrocinare solidarietà e cultura a vantaggio dell’aumento delle spese militari e dell’intoccabilità dei tanti privilegi che affliggono il Belpaese.

È per tutto questo, credo, che il governo Renzi dovrebbe cadere; non per il referendum, su cui il mio parere è stato espresso chiaramente. Ma il governo Renzi cade per altra ragione. Cade perché il partito da egli stesso diretto è allo sbando, uno sbando che proprio oggi porta alla formazione di nuovi gruppi parlamentari sostenuti da coloro che da Renzi erano stati sostenuti; nuovi gruppi parlamentari che sosterranno – a quanto dicono – l’azione di Paolo Gentiloni, ex ministro degli Affari Esteri e da un paio di mesi presidente del Consiglio al posto del suo “capocorrente” Renzi.

Chi parla di politica? Chi offre politica ai lettori, ai teleascoltatori, ai radioamatori? Chi mostra che esiste un partito con un progetto e un programma? Questo, ormai, è di tutto disinteresse. Come mostrato in queste righe, di tutti gli avvicendamenti e di tutti i passaggi di mano che ci sono stati in questi ultimi anni nulla è avvenuto in base a un mandato politico – quindi nulla in base a una proposta politica – e nulla è avvenuto mettendo come caposaldo una dialettica parlamentare che, sì, avrebbe potuto portare a larghe intese almeno sulla legge elettorale, che ancora non c’è, e addirittura – chissà – a qualche novità sui diritti civili come i famosi provvedimenti sull’eutanasia di cui ora si parla perché è morto un personaggio di una certa notorietà.

La realtà è che attualmente in questo paese esistono partiti e movimenti che si sono ripetutamente rivelati autolesionisti o vacui o populisti o retrogradi o fasciorazzisti o inconsistenti, e che spesso l’autolesionista ha governato col retrogrado, e che il populista sta bene col fasciorazzista.

Per cui, tornando all’inizio. Se uno davvero la dovesse raccontare a chi fosse del tutto estraneo ai fatti della politica italiana ci sarebbe da sentirsi in un gioco tragicomico, in cui ricapitolare porta semplicemente a un senso di amarezza e al desiderio di andare a fare una camminata in montagna, vedere come fioriscono i prati e come cantano i pennuti, sentirsi liberi e immaginare come un futuro incontro d’intelligenze, scevro d’interessi diversi da quelli condivisibili da tutta l’umanità, ribalterà questa triste stagnazione che per essere economica e politica poggia su una profonda, pericolosa, falda di povertà culturale.

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