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Scritto da nel Numero 122 - 1 Agosto 2015, Tempo e spazio liberi | 0 commenti

L’autobus che cambiava numero

L’autobus che cambiava numero

1.

 

Saarbrücken è una città tedesca abbastanza grande, al confine con la Francia. Sarà grande più o meno come Livorno, o forse poco di più, all’incirca come Modena.

Insomma una volta a Saarbrücken successe una cosa strana.

 

La signora Ebba usciva tutti i giorni alla stessa ora dal portone di casa sua a via Cecilia, per andare in via Dudweiler a prendere l’autobus. Alla fermata incontrava sempre due sue amiche: la signora Inge e la signora Therese. Insieme salivano sul numero 51, che le portava al cimitero, dove facevano saluto ai loro mariti. Tutti i giorni, rispettivamente da ventiquattro, diciotto e ventidue anni, tutti i santi giorni queste donne andavano al cimitero. Piovesse o nevicasse o ci fosse la peggiore afa d’ogni tempo, sotto le bombe o con i militari per strada (e in quel caso a piedi), loro andavano al cimitero. Ovviamente non erano le uniche persone che prendevano quell’autobus; ma quella era una linea frequentata soprattutto dai ragazzi che il pomeriggio se ne andavano ai campi sportivi, quindi la mattina alle sette, quando loro salivano, c’erano sempre poche persone. Specialmente quel giovedì 22 marzo del 1973.

 

Quel giorno decisero di prendersela con calma, perché Ebba aveva un appuntamento col dentista alle nove. Decisero allora di andarci all’ora di pranzo, quando c’era meno gente per strada.

Salirono sull’autobus, che era deserto, e si trovarono da sole con l’autista. L’autobus cominciò la sua corsa ma dopo un paio di fermate accostò, frenando piuttosto bruscamente.

«Ach so!» esclamarono Inge ed Ebba.

«Ullallà!» esclamò Therese, che era per metà francese, «che succede?», e l’autista: «Si cambia linea. Per un paio d’ore diventiamo il 25». «Ullallà», riprese Therese, «e noi come facciamo?», e l’autista: «Beh, potete farvi un giretto con me, poi quando torniamo a fare il 51 vi riporto al cimitero. Se no scendete e andate a piedi».

 

2.

 

Su quello stesso autobus salì, dal 16 ottobre 1972 al 21 marzo 1973, un signore italiano che si chiamava Mario. Tutti i giorni alla stessa ora, ogni mattina dal lunedì al venerdì. Tutti i giorni eccetto durante i giorni in cui tenne chiuso il negozio per ferie, fra il Natale e l’Epifania. In totale, Mario era salito su quell’autobus esattamente cento volte.

Aveva preso a viaggiare in corriera perché gli avevano rubato l’automobile. L’aveva appena comprata, nuova di zecca. Una Fiat “124 Sport Spider 1600″, terza serie. La notte successiva al suo acquisto, ossia la notte fra sabato 14 e domenica 15 ottobre 1972, quando l’aveva guidata per appena un paio d’ore e circa novanta chilometri, qualcuno entrò nel garage dove l’aveva parcheggiata, dette una randellata in testa al custode che già di suo sonnecchiava nel gabbiotto centrale e rubò quella, una “600 Francis Lombardi“, una Opel “Kadett A”, un’Alfa Romeo “Giulia TI Super” e una Peugeot “204 Break”. Nessuna supercar, benché la sua fosse così nuova, così rossa, così decappottabile. La mattina dopo, giunto di buon’ora al garage per andare a fare un giro nel Palatinato, fu proprio lui a scoprire l’accaduto e a svegliare il bernoccoluto guardiano.

Mario era arrivato a quell’acquisto a trentadue anni, dopo tanti sacrifici. Era emigrato a sedici anni, orfano di padre e madre, solo al mondo, e aveva fatto molti lavori, dimostrando di essere uno che non si da’ per vinto e di riuscire nei più disparati mestieri. Ora che aveva un negozio tutto suo, che portava avanti con successo da due anni, si era concesso un finanziamento per esaudire il suo desiderio, e si trovava così a dover pagare ogni mese un’automobile che non possedeva. Viene da sé quanto Mario fosse scioccato dal furto; eppure non poté far altro che attendere la polizia sul posto, e sporgere denuncia.

Il giorno dopo, Mario uscì dal suo appartamento di via Richard Wagner e strusciò la cucitura dei suoi pantaloni, retti non da una cintura ma dalle sue mani in tasca, fino alla fermata dell’autobus. Aspettò, e quando quello giunse salì dalla porta anteriore.

Fece caso alla figura dell’autista, ma non si sentì di soffermarsi a guardarlo con attenzione. Era un uomo apparentemente di mezza età, con i capelli lunghi e la carnagione olivastra.

Non ci pensò più e scese alla sua fermata.

La mattina dopo uscì leggermente più tardi, e vide che l’autobus si stava avvicinando alla fermata quando a lui mancavano ancora parecchi metri. Si mise a correre, sbracciandosi per farsi notare dall’autista. Questi pigiò i pulsanti per chiudere le porte e tolse il freno, e non appena iniziava ad affondare il piede nell’acceleratore vide Mario nello specchietto che correva e si sbracciava. Si fermò e lo fece salire.

«Grazie mille», disse Mario ansimando.

«Prego, prego. A quest’ora c’è un passaggio ogni venti minuti, se va bene, quindi…»

«Beh, mi ha risparmiato una bella attesa!»

«Quando si può… ci vuole così poco per essere gentili, alle volte… mia madre me lo diceva sempre. Poi tutti quanti hanno quest’idea che noi conducenti siamo dei cafoni, dei lavativi… ma che si credono, che li facciamo noi gli orari dei mezzi pubblici? Le pare che se li facevo io, gli orari, mi facevo un turno che invece di otto ore è quasi di dieci perché devo arrivare alla rimessa la mattina e tornarci la sera?»

«Ah, però!»

«Eh, però… altro che però, te lo dico io! Che tu sei giovane, ma vedrai quanto ti possono far girare le scatole quando se la prendono con te che hai lavorato tutta una vita e non c’entri niente».

«Vabbè, tutta la vita… lei è ancora giovane…»

«Magari, caro mio… io ho cinquantacinque anni e…»

«Ma a cinquantacinque anni si è giovani!»

«Non quando lavori da quarantatre anni, ragazzo. E comunque io mi sento piuttosto giovane. Anche se in realtà, fisicamente, di anni me ne sento duemila».

«Ma che dice! Fa bene a sentirsi giovane!»

«Se faccio bene comincia a darmi del tu, o mi farai sentire vecchio!»

«D’accordo. Allora piacere di conoscerl… conoscerti. Io sono Mario».

«Piacere mio, Mario. Gunther. Sei italiano?».

«Trapiantato. Ormai sono molti anni che vivo qui».

«Un mio vecchissimo parente era italiano. Cioè, abitava a Roma. Si chiamava Sebastiano. Tu di dove sei?»

«Originario anch’io di Roma».

«Che gran città che dev’essere. O-oh… scusa, ma c’è un ispettore a quella fermata. Non voglio che mi veda parlare mentre sto guidando».

«Ok, allora vado a sedermi. Grazie ancora per avermi aspettato».

«Di niente, figurati».

«Buona giornata, buon lavoro!»

«Altrettanto, grazie!»

 

La mattina successiva Mario uscì prima per fermarsi al bar a fare colazione. Non pensava ad altro che alla sua povera automobile. Si sentiva derelitto. Fece una colazione piuttosto sostanziosa, con würstel, uova e pancetta affumicata, bevve un caffè doppio e andò alla fermata dell’autobus, che arrivò puntuale.

«Gunther… buondì».

«Tschuß, Mario! O ciao, come dite voi laggiù in Italia! Non sospettavo che avresti rammentato il mio nome».

«Beh, è così».

«Tanto meglio. Come va?»

«Bene, a parte che non riesco a togliermi dalla mente la mia macchina. Me l’hanno rubata l’altro giorno, prima di conoscerti».

«Eh, caro mio, purtroppo… ci sono tanti delinquenti in giro! Specie da quando se ne sono andati i francesi. Sembra che tutti i criminali del mondo siano venuti a stabilirsi qui».

«Pensa che la polizia mi ha detto che probabilmente è una banda di italiani».

«Italiani».

«Aha. Fanno rubare le auto qui perché poi le portano in Svizzera, e da lì giù in Italia».

«Pensa che affare».

«Già». Mario si lasciò prendere da un’onda di sconforto. «Ci vorrebbe proprio qualcosa che mi facesse pensare ad altro, che so, una donna, o un bel viaggio».

Gunther annuì silenziosamente e continuò a guidare. Mario era accanto a lui, osservava la pioggia ticcherellare sul parabrezza dell’autobus e ascoltava il trrrrrr tttrrrrr fffggnacc dei tergicristalli che digrignavano le vecchie setole sul vetro.

A un semaforo rosso, Gunther mise il freno a mano e si voltò verso Mario. Fece per dirgli qualcosa, poi si fermò. Dopo un momento riprese con un sospiro. «Facciamo una cosa: vediamoci giovedì prossimo, verso le dodici e trenta. In genere a quell’ora non carico mai nessuno. Tu sali e io ti porto a fare un giro».

Mario si ritrasse perché non capiva, ma provava un inconsapevole senso di fiducia verso Gunther, e accettò. «Uhm… va bene. Ma dove mi porti?»

«Ancora non lo so. Dipende dal numero che mi viene assegnato. Cioè, lo so che non puoi capirla messa così, ma non ti preoccupare. Vedrai che con ogni probabilità ci faremo un bel giro».

«D’accordo».

 

Mario scese dopo quattro fermate, e continuò a prendere l’autobus e a salutare Gunther fino al giovedì, quando decise che avrebbe preso un giorno di ferie per fare quel famoso giro con Gunther. Era incuriosito.

 

Salì sull’autobus, che era effettivamente deserto.

«Ciao, Gunther! Allora, dove si va?»

«Ancora non lo so. Vedremo fra qualche fermata». Detto fatto, dopo poco accostò e cambiò il numero della linea. «Oggi facciamo il 994. Come lo vedi, Mario?»

«Non ne ho idea, perché no?»

 

L’autobus ripartì. Viaggiò fino ad uscire dalla città e a prendere la strada verso Kaiserslautern. Dopo qualche chilometro uscì in una strada circondata da un bosco.

«E’ bellissimo qui, Gunther! Non c’ero mai stato!»

«E il bello deve ancora venire. Siediti, Mario, e reggiti».

Così fece. L’autista controllò dallo specchietto che l’uomo si fosse assicurato. Poi pigiò un pulsante sotto al volante, e in un attimo l’autobus intero divenne invisibile. Tutto: sedili, vetri, reggimano, pavimento, ruote, motore. Tutto, e presto Mario si accorse che anch’egli era invisibile. Si sentiva il corpo, non aveva perso nessuno dei cinque sensi, ma non si vedeva più.

«Non ti lasciar ingannare, e reggiti forte!» urlò Gunther mentre pigiava un altro bottone. L’autobus decollò.

 

I due volarono sopra quel bosco, poi sopra Kaiserslautern, poi sorvolarono l’autostrada fino a Magonza. Mario adorava quella città, e gli parve incredibile poterla vedere dall’alto. C’era ancora qualche cantiere di ricostruzione per i bombardamenti della seconda guerra mondiale. Quando poi volò sulla confluenza del Meno nel Reno, il grande fiume, gli venne quasi da piangere dalla gioia che provava.

«Oh grazie, Gunther! Ma com’è possibile! Chi sei per fare tutto questo!»

«Eh, chi sono… sono una persona fortunata a cui è concesso di dare in qualche modo un po’ di serenità a chi la merita, e non l’ha. Goditelo…»

 

Mario se lo godette tutto, quel giro. Non avrebbe mai potuto immaginare che cosa intendesse Gunther, quel conducente di autobus così assurdo e gentile. Quando ripensava al fatto che sulle prime aveva paura della sua proposta! Quante risate! Non sapeva chi fosse, ma sapeva di dover mantenere un segreto.

 

Fecero molti altri giri. Dapprima si mantennero più vicini, Karlsruhe, Strasburgo, Mannheim, Metz, Stoccarda, Digione, Friburgo, Besançon. Poi cominciarono a viaggiare per tutta Europa. Continuarono così a lungo, fino al 22 marzo. Alle volte l’autobus diventava il 97, altre il 7264, poi ancora il 12 bis, il 1001 barrato, il 77 rosso e il 688. Quando non era giovedì viaggiavano di notte, per vedere l’alba nelle città prescelte. Il giorno del compleanno di Mario, che era il 4 gennaio, Gunther prese un giorno libero, montò sull’autobus, mise il numero 753 e lo portò a Roma. Era il suo regalo. Viaggiarono di notte, con la luna nuova, ed era splendido perché si vedevano solo le luci artificiali dell’umanità: Mario poteva immaginare chi stava lavorando, chi stava dormendo, e chi stava facendo all’amore, se per caso si vedeva una luce soffusa. Quando arrivarono albeggiava. Girarono invisibili per tutto il giorno; c’era un sole meraviglioso, e i quattordici gradi del mite inverno romano lo scaldarono dentro.

 

3.

 

Le anziane signore ci pensarono su. Poteva essere un diversivo, certo, ma come fidarsi! Del resto, quell’autista le portava a destinazione dalla prima volta che erano salite sul 51. Non sapevano proprio che pesci prendere.

«Non ci può proprio dire dove saremmo diretti, eventualmente?» chiese Ebba.

«Nossignora. La prima volta che porto qualcheduno a fare un giro non lo so nemmeno io».

Continuarono a discutere fra loro. Doveva trattarsi di una di quelle nuove porcherie moderne. Eppure lui ispirava davvero fiducia. «Va bene, giovanotto. Siamo troppo vecchie per camminare fino al cimitero, e anche per aspettare che lei torni. Ma se fa qualche scherzo, la denunceremo ai vigili».

«Ha! Nessuno scherzo, cara signora. Vedrà che vi divertirete. Ora sedetevi e reggetevi forte».

 

Le portò in giro a lungo, tutto il pomeriggio. Mise il turbo e in quattro ore quelle povere vecchiette, che non si erano mai mosse dai dintorni di Saarbrücken, visitarono mezza Europa. A ognuna poi fu concessa una scelta. Loro, stupefatte, credettero in un miracolo divino; ridevano come ubriache, e non ricordavano una gioia così autentica da quando erano ragazzine. Ebba volle volare su Vienna. Inge su Londra. Therese su Lione, poi chiese se si poteva andare anche a Parigi, ma Gunther rispose che avevano ancora un desiderio per tutte e tre: Ebba avrebbe voluto sorvolare le Piramidi e Inge la Muraglia Cinese, ma l’ultima era troppo lontana, e le Piramidi non erano un desiderio così forte in Ebba. Stava cominciando a imporsi fra loro la possibilità di andare a New York, ma avevano troppa paura di attraversare l’oceano, così si risolsero a planare tranquille intorno alla Torre Eiffel e sull’Opéra e sulla Senna, accanto a Notre-Dame. Al rientro quasi dimenticavano di dover ancora andare a visitare le tombe dei loro cari, ma Gunther le portò proprio all’ingresso del cimitero. Questa volta salutarono i loro mariti con un sollievo e una sensazione di pace indescrivibili.

 

4.

 

Il giorno successivo Gunther le raccolse regolarmente alle sette del mattino. Le portò al cimitero, e sulla strada del ritorno incontrò Mario che aspettava l’autobus. Non si sentiva bene, aveva chiuso il negozio poco dopo l’apertura. Voleva tornare a casa. Le vecchie signore ancora pensavano alle ore trascorse poco tempo prima. Due di loro tossirono, e una ebbe un piccolo mancamento. L’autobus inchiodò per conto suo.

 

Gunther si guardò alle spalle. I quattro lo fissavano, stavolta spaventati. Mise lo zero, e ripartì. Fece qualche chilometro fino a giungere appena fuori città su un ponte che attraversa il fiume Saar. Lasciò il volante, e l’autobus spiccò un balzo al di sopra del parapetto. Nel momento in cui cominciò a cadere nel fiume si divise in due, e loro rimasero su quello invisibile. Quello vero precipitò in acqua e affondò. Loro volarono in alto, sempre più in alto, e prima piangevano, poi piangendo presero a ridere. Videro l’azzurro del cielo. Si trovarono immersi nel bianco delle nuvole. Sentirono un gran caldo mentre attraversarono l’atmosfera, poi tutto fu nero e venne loro un gran freddo, ma ridevano tanto perché potevano vedere miliardi di stelle e la terra sotto, come da un satellite.

 

Il giorno successivo, la notizia di un autobus precipitato da un ponte sulla Saar senza sfondare il parapetto era su tutti i giornali. Non c’erano testimoni oculari, e all’interno del ferrovecchio non venne mai trovato un cadavere.

 

Qualcuno gridò al miracolo. Loro continuarono a ridere.

Si ringrazia Fermento editore per la disponibilità a pubblicare il testo

 

 

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