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Scritto da nel Arte e Spettacolo, Numero 134 - 1 Novembre 2016 | 0 commenti

“Café Society” di Woody Allen

“Café Society” di Woody Allen

“Si deve essere se stessi, fare le proprie scelte morali… anche quando richiedono vero coraggio, altrimenti si è come robot o lucertole”. Questo è ciò che fece dire Woody Allen a Zelig nell’omonimo film del 1983. Alla luce dell’ultimo lavoro del regista, vista la totale mancanza di riferimenti con il sé stesso autore ci si domanda se, ad oggi, vesta i panni di un rettile o di un automa.
Café Society è l’ultimo tassello di un lungo percorso in cui il regista prende le distanze dal suo archetipo, quello del cinico ansiogeno e corrosivo, e si rapporta alla pellicola in maniera sempre più fiacca, senza imporre la sua impronta e privando lo spettatore di ogni riferimento che sia riconducibile alla sua poetica.

Note di swing aprono il film alla nostalgia di un tempo che fu, lo Star System americano è mostrato in tutto il suo fulgore; ville sfarzose, dive appesantite da chili di diamanti e pellicce, uomini stretti in completi gessati e cocktail sorseggiati a bordo piscina.
Come accadde per Midnight in Paris o To Rome with Love sarà l’ambientazione a farla da padrone: un’altra cartolina, un’altra parodia del paese dei campanelli, dove nemmeno i killer del Bronx hanno qualcosa di sgraziato, ma sono belli e impeccabili. Il mondo dei sogni è enfatizzato dalla fotografia patinata di Storaro e dall’artificiosità di scenografie e costumi, per questo ogni forma di realtà viene schiacciata dalla rappresentazione di maniera.

Woody Allen non ha mai utilizzato il linguaggio cinematografico come forma d’arte, né come oggetto di sperimentazione, piuttosto ha utilizzato il cinema come mezzo per raccontare il proprio punto di vista. La regia non è stata, dunque, un segno distintivo del suo stile; è della sceneggiatura che ha fatto il suo punto di forza.
Ogni suo film è stato una tessitura all’interno delle cui maglie si svelava, freddura dopo freddura, la sua visione del mondo. Perché questo fosse possibile, l’ordito della vicenda era semplice (salvo qualche eccezione) così da essere costellato da tutte quelle battute al vetriolo che hanno reso il regista un’icona.
Anche in questo suo ultimo lavoro la narrazione è elementare: la storia che si muove, piuttosto debole nonché assai sfruttata, è quella di un ragazzino in cerca di sogni e celebrità che si reca a Hollywood; deluso dalla donna che ama, torna a New York e si ricostruisce una vita, finché un giorno non riappare la vecchia fiamma.
Niente di eclatante se non fosse che si riscontra la totale mancanza di quell’ironia tagliente con cui Allen era solito esibire le sue ansie e le sue psicosi, e metteva a nudo le vigliaccherie e le bassezze degli uomini. Mostrava, così, l’umana inadeguatezza al mondo.

Probabilmente l’impronta alleniana si riscontra solo nella caricatura della famiglia ebraica mostrata secondo tutti i suoi cliché («siamo i padroni di tutto» sostiene scherzosamente il protagonista) ma questa volta la parodia si rivela nell’espressione visiva: sono ritratte le piccinerie del nucleo famigliare, vengono esibiti il grigiore e la trascuratezza in cui vive, e ci sono solo alcuni rifermenti all’ambizione e all’avarizia, al rapporto con la fede, ma anche in questo frangente manca il mordente.

Insomma la chiave del film è la nostalgia di un’epoca sognata, raccontata senza alcuna sbavatura, dove ogni cosa brilla di luce innaturale; e la nostalgia più profonda che si avverte è quella per lo stile del vecchio Allen.

Trama

Bobby, giovane in cerca di successo, lascia la bottega del padre e si trasferisce a Hollywood dove trova lavoro presso un’importante agenzia artistica gestita dallo zio. Incantato dallo sfarzo e dalla grandeur dei divi sembra aver trovato il suo posto nel mondo fino a quando la segretaria-amante dello zio, Vonny, non lo aiuta a comprendere quanta superficialità si nasconda dietro quel lusso sfrenato.
Ovviamente Bobby s’infatua di lei, che sembra ricambiarlo fino a quando il vento gira di nuovo ed ella decide di restare insieme al suo amante. Deluso, Bobby torna a New York dove si mette in affari col fratello, inserito nella malavita del Bronx, e gestisce per suo conto un club. Grazie alle conoscenze strette a Hollywood il Café diventerà il punto d’incontro dell’alta società; finalmente le ambizioni di Bobby sono soddisfatte e una volta lasciato il passato alle spalle, convolato a nozze e diventato padre di una figlia, riceve la visita dello zio e di Vonny.

Crediti

Titolo: Café Society / Regia: Woody Allen / Interpreti: Jesse Eisenberg, Kristine Stewart, Steve Carell, Blake Lively / Sceneggiatura: Woody Allen / Fotografia: Vittorio Storaro / Montaggio: Alisa Lepselter / Produzione: Film Nation Entertainment, Gravier Productions, Perdido Productions/ Paese: Stati Uniti d’America / Anno: 2016 / Durata: 96 minuti

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