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Scritto da nel Letteratura e Filosofia, Numero 110 - 1 Giugno 2014 | 0 commenti

Il Tempo dell’Uomo

Il Tempo dell’Uomo

 

Un certo modo di porre il problema del “tempo libero” ripete, sostanzialmente, quell’antinomia che Charles Percy Snow nell’opera  Le due culture e la rivoluzione scientifica del 1959  ha  chiamato appunto “Le due culture”,  (espressione ormai diventata classica): la cultura umanistica e la cultura tecnico-scientifica.  E’ il modello dicotomico  tra otium et  negotium,  tra artes liberales, legate alla fruizione e   opera fabrilia, connesse con la produzione.

In questo schema vengono sistemati, secondo una concezione manichea del tempo e dello spirito, <il tempo libero>  e il <tempo del lavoro>. La  proposizione del problema in questi termini è una conseguenza  della “cattiva coscienza  del tempo libero”.

Con acuto intuito questa “cattiva coscienza” è stata descritta da Friedrich Nietzsche in una lucida pagine della  Gaia scienza (1882)  che vale la pena rileggere.

            “Già ci si vergogna di riposare … Si pensa con l’orologio in mano, come si mangia a mezzogiorno con gli occhi sul  bollettino della Borsa, si vive  come se si temesse  continuamente di  perdere un affare… La caccia al guadagno costringe continuamente l’intelligenza  a spremersi fino all’esaurimento…. Adesso la vera virtù consiste nel far qualche cosa in minor tempo  che un altro. E dunque son ben poche le ore in cui è consentita la sincerità. Ma in queste ore poi si è così stanchi che si vorrebbe non solo distendersi, bensì  buttarsi giù come un ciocco… Si potrebbe presto arrivare al punto di non cedere al gusto  della vita contemplativa (cioè al passeggiare con i propri pensieri e con gli amici) senza disprezzarsi e farsene un rimorso”.

Queste considerazioni del filosofo tedesco sono ispirate a quel clima austero e puritano della <Età vittoriana>, quando la serietà della vita era fatta consistere nell’esaltazione del lavoro fine a se stesso.

Successivamente, con l’avvento sconsacrante della nuova scienza della natura , la concezione esaltata e teologica del lavoro andò via via perdendo sempre più la sua attrattiva in un contesto contraddistinto dall’eclisse del sacro. L’uomo contemporaneo, testimone e protagonista del trionfo della scienza e della tecnica, si è tratto fuori dall’orizzonte del sacro. Di conseguenza quei <valori>, una volta sacrali, hanno subito un processo di trasformazione, si sono cioè  “secolarizzati” , conservando tuttavia la matrice originaria. Oggi quei “valori” hanno assunto una nuova formulazione secondo i canoni del Taylorismo e sono alla base della società consumistica.

Recentemente  Benedetto XVI, in una udienza pubblica, ha ripreso questa tematica   prendendo spunto dal pensiero di San Bernardo di Chiaravalle.

Nel nostro tempo, partendo da quel  modello dualistico, si è generato il convincimento di dover contrapporre un correttivo gratificante e compensativo al tempo frenetico e parossistico del lavoro. Ed ecco “il tempo libero” in antitesi al “tempo impegnato” e come istanza di recupero della dimensione umana che il lavoro opprime (?).

Sennonché questa  esigenza di recupero oggi viene intessuta  nell’ordito delle regole consumistiche della società contemporanea. Essa prende corpo  nelle città in cui, con le ferie degli stabilimenti industriali, mezza popolazione si riversa sui monti e al mare  e le vacanze vengono organizzate dai <tour operator> che, con scelte collettive e  livellate,  scaricano i gitanti nei ristoranti in cui ci sono tavoli già pronti con  menù a prezzo fisso, mentre  la radio gracida a volume assordante, oppure la gente si isola con  l’Ipod  incollato nelle orecchie.

In definitiva l’uomo di oggi, strumento inconsapevole  di una macchina elefantiaca, anche durante il  cosiddetto  “tempo libero” si ritrova  ancora  “uomo-in-serie”, “uomo-numero” , ben lontano  dalla originalità della sua capacità di sentire, di giudicare, di volere, restando invece avulso da ogni partecipazione esperienziale del mondo vario che lo circonda. Come dice Gűnther  Anders, in  L’uomo è antiquato (1963), “Gli uomini restano ancora gli eremiti di massa”. Non  a caso ogni anno, a fine agosto, i mass media discettano del “malessere delle vacanze”

A questo punto sembra logico concludere che  “il tempo libero” è, anch’esso, alienante e spersonalizzante. Ci troviamo così di fronte ad una duplice alienazione: quella del  “tempo impegnato” accanto a quella  del  “tempo libero”.

Alla base di questa  dicotomia  c’è un equivoco di fondo che scaturisce dalla visione dualistica e manichea sopra denunciata che consiste nella scissione dell’uomo e del suo tempo.

Per  cercare di superare l’equivoco e comporre l’antinomia occorre preliminarmente dare una risposta a questa domanda: tempo, tempo di chi ?

Certamente tempo dell’uomo. La vita dell’uomo, il suo pensiero, il suo lavoro, i suoi hobbies   sono attività temporalizzanti in quanto l’uomo, a differenza della scimmia, con il suo “fare”  è in grado di conservare e tramandare il passato, progettare il futuro, operare delle scelte nella libertà.

Tempo” e “libertà”.  Sono questi i poli che devono guidare l’uomo, segnando  il suo itinerario di vita: saper cercare e ritrovare le radici della propria umanità, senza smarrirsi nell’anonimato, senza perdere l’originalità e l’identità della  “persona”, recuperando in ogni momento, in ogni “fare” quei valori di humanitas  insiti nell’essere e nella vita. Che senso potrebbero  avere per l’uomo  l’autonomia e la libertà se non fosse responsabile del suo “fare”; un “fare” in cui il tempo del lavoro non alieni da sé il tempo libero e la fatica si coniughi col riposo, entrambi necessari per vivere e per  pensare.

Mario Manno, in Ricerche (1968), osserva: «Se l’uomo non ha saputo cogliere nel suo lavoro la qualità dell’autentico, non la coglierà certamente nel cosiddetto “tempo libero”».

Questa  cifra valoriale l’aveva ben intuita  secoli fa,  San Benedetto da Norcia , padre del monachesimo occidentale, che racchiuse questa felice intuizione nel  suo famoso motto “Ora et labora” .

Uscendo, allora, dall’equivoco possiamo dire, riaffermando la concezione unitaria,  che  l’uomo è veramente uomo in quanto lavora e in quanto trascende la natura e trasforma il mondo con il pensiero e il “fare”. In questo quadro valoriale, così come abbiamo una persona unitaria, avremo anche un tempo unitario e totale della persona, avremo cioè non un  “tempo libero” accanto ad un  “tempo impegnato”, semmai due aspetti, due dimensioni di un unico tempo: “il tempo dell’uomo”.

Soltanto in questa prospettiva si aprono, per un numero sempre più grande di individui, possibilità nuove di ritrovare se stessi e di realizzare la propria umanità all’interno del lavoro, evitando così di rinviare  inutilmente  tale possibilità al momento mistificato della fruizione compensativa e alternativa o, comunque, ad attività da ricondurre alla  concezione  dicotomica  dell’uomo e del suo tempo.

Assicurata questa esigenza antropologica, sarà dato anche agli uomini del terzo millennio sostare e ripetere ciò che Socrate diceva ai suoi discepoli: “Lasciate che ci sdraiammo all’ombra di questo albero e ragioniamo”. O quello che  Emanuele Kant, riecheggiando la sapienza socratica, faceva dire al suo personaggio alla fine dei Sogni  di un visionario (1766): “Lasciate che usciamo

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