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Scritto da nel Internazionale, Numero 112 - 1 Agosto 2014 | 0 commenti

Una nuova fibra per la Terrasanta

Una nuova fibra per la Terrasanta

L’amico Tobia Desalvo mi ha chiesto se sarei stato disposto a scrivere qualcosa per l’Arengo del Viaggiatore a proposito di quanto sta accadendo a Gaza in queste settimane. L’invito mi ha lusingato. Ho vissuto per qualche tempo in Israele e da molti anni ne studio con passione la storia e ne seguo con partecipazione le vicende. E’ un paese nel quale torno sempre volentieri, del quale parlo volentieri e che volentieri provo a raccontare a chi non lo conosce, a chi non c’è mai stato e a chi – anche e soprattutto grazie a un certo modo di fare informazione – ne ha un’immagine distorta o parziale.

L’invito di Tobia, però, non lo nascondo, mi ha anche un po’ inquietato. Quando si parla di Israele e Palestina e di un conflitto che si protrae da oltre un secolo, a scontrarsi sono Verità assolute, apodittiche, esclusive e mutuamente escludenti. Se un giorno tra Israele e tutti i suoi vicini scoppierà finalmente la pace, temo dovrà passare molto tempo prima che i rispettivi tifosi fuori dal Medio Oriente la accettino.

L’ho già scritto e lo ripeto: ho vissuto in Israele e della storia e della cronaca di Israele sono un appassionato frequentatore. Accetto il verdetto che questo comporterà agli occhi di una parte dei lettori: sono di parte. Penso che Israele abbia diritto a esistere. Penso che i suoi cittadini abbiano il diritto di condurre esistenze normali e penso sia il paese – in una fetta di mondo che va dalla Mauritania all’Australia – che più fa per consentirglielo. E qui già mi sembra di sentire le obiezioni… Correrò il rischio di dire cose che potranno irritare qualcuno, ma spero che a irritarlo sia quel che dico, non quel che penserà o immaginerà io abbia detto. Quindi proverò a dirlo in modo chiaro e diretto e senza nascondermi dietro un dito.

Comparando le statistiche relative alla popolazione della Palestina ottomana di un secolo fa con la popolazione attuale di quella stessa regione, (http://en.wikipedia.org/wiki/Demographics_of_Palestine; ; http://www.jewishvirtuallibrary.org/jsource/History/demograhics.html), un dato balza agli occhi: un paese grande poco meno dell’Emilia Romagna e che esattamente cento anni fa ospitava e nutriva una popolazione di 6-700.000 persone, è oggi abitato da una dozzina di milioni di individui. Banalmente: lo spazio e le risorse per coesistere c’erano e ci sono. La Palestina tardo-ottomana non era la terra senza popolo per un popolo senza terra della prima vulgata sionista, ma non era nemmeno il paese abitato da un popolo provvisto di una solida coscienza nazionale evocato da quanti negano o riconoscono solo a denti stretti la legittimità di Israele, accusandolo di essere nato da un’usurpazione.

Israele non è un paese santo né un paese di santi – anche perché, ahimé, la conditio sine qua non per accedere alla santità è morire… E pur non essendo un paese di santi, Israele non è nemmeno quel mostruoso regime di apartheid di cui tanti vaneggiano. Con i suoi difetti, Israele – lo stato ebraico – è il solo paese del Medio Oriente a garantire pieni diritti a tutti i suoi cittadini, compreso un 20% abbondante di arabi. Gli ebrei di Israele preferirebbero essere una comunità culturalmente omogenea, senza quel 20% abbondante di cittadini arabi? Mah, probabilmente molti di loro sì – e di sicuro le relazioni e l’integrazione tra la maggioranza ebraica e la minoranza araba potrebbero essere migliori di come sono, ma il dato di fatto che resta è che un cittadino arabo di Israele ha il diritto di esprimere le proprie opinioni, il diritto di votare e candidarsi alle elezioni nazionali e locali, il diritto a professare apertamente una religione o a essere altrettanto apertamente ateo, il diritto a leggere qualsiasi giornale e, qualora ne sia capace, a scrivervi, il diritto a iscriversi al sindacato o a militare in partiti politici liberi e il diritto a esprimere liberamente il proprio orientamento sessuale. Un arabo cittadino di qualunque paese arabo questi diritti, semplicemente, non li ha. In una ipotetica linea continua dall’inferno al paradiso, per un arabo Israele non è certo il paradiso, ma è molto più lontano dall’inferno di qualunque paese arabo.

Israele è in guerra. Non dal mese scorso. Il 29 novembre del 1947 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite votò a maggioranza la spartizione della porzione di Palestina Mandataria a ovest del Giordano in due stati: uno ebraico e uno arabo. Se fosse stata accettata da entrambe le parti, quella spartizione avrebbe sancito la nascita del primo stato arabo della storia in quel lembo di terra. Ma quella spartizione non fu accettata da entrambe le parti. A non accettarla furono gli arabi, che – non per l’ultima volta – anteposero l’ambizione di distruggere lo stato ebraico a quella di edificare lo stato arabo. Da quella guerra – che il segretario generale della Lega Araba Azzam Pasha e il gran muftì di Gerusalemme Hajj Amin al-Husayni non ebbero remore a definire di sterminio – Israele uscì vincitore e solo la vittoria gli permise di continuare a esistere. Gli israeliani condussero una guerra pura, senza colpi bassi e senza azioni men che onorevoli? Certo che no: era in gioco la loro sopravvivenza in una guerra scatenata da un nemico che ostentava la propria volontà di sterminarli. I torti e le atrocità ci furono e furono commessi e subiti da entrambe le parti, ma imputare solo e unicamente a Israele il fatto che, sessantasei anni più tardi, lo stato arabo palestinese non sia ancora nato e gli arabi palestinesi siano ancora carne da cannone tenuta a frollare nei campi profughi è, ancora una volta, abusivo.

La guerra di indipendenza di Israele causò l’esodo di circa seicentomila arabi dai territori di quella che era stata fino a quel momento la Palestina Mandataria. Allo stesso tempo, un numero pressoché equivalente di ebrei fu cacciato da tutti i paesi arabi. Non più di un anno prima, la guerra tra India e Pakistan aveva provocato milioni di profughi da una parte e dall’altra: i musulmani fuggiti dall’India si erano trasferiti in Pakistan e gli indù scappati dal Pakistan erano passati in India. A nessuno, in India, Pakistan o alle Nazioni Unite, era venuto in mente di istituzionalizzare la condizione di profugo degli uni e degli altri. La fine della Seconda Guerra Mondiale aveva spostato i confini europei e creato, anche lì, milioni di rifugiati. A nessuno era venuto in mente di eternare la loro condizione. Gli ebrei fuggiti e scacciati dai paesi arabi e approdati in Israele non passarono nei campi profughi che il tempo strettamente necessario a consentirne l’assorbimento. Solo per gli arabi palestinesi è stata creata un’agenzia ad hoc delle Nazioni Unite – l’UNRWA, fondata nel 1949 – e solo per gli arabi palestinesi lo status di profugo è stato reso ereditario. Il risultato: sessantasei anni dopo, i profughi palestinesi si sono moltiplicati per dieci e la gran parte di loro non è nata in Palestina e non ci ha trascorso un solo giorno della propria vita. Tra il 1949 e il 1967 la West Bank e la Striscia di Gaza furono occupate e amministrate rispettivamente da Giordania ed Egitto: paesi che avevano entrambi mosso guerra a Israele nel 1948 e i cui eserciti avevano esortato la popolazione civile araba a lasciare le sue case per non essere d’intralcio alle operazioni militari contro gli ebrei. A guerra finita, Egitto e Giordania ben si guardarono dal favorire la nascita di uno stato arabo palestinese indipendente nei territori da loro controllati – né la leadership palestinese fece alcunché per indurveli. Ancora una volta – e non per l’ultima – la retorica anti-israeliana aveva il sopravvento sul buon senso.

Quello che succede oggi a Gaza è il frutto avvelenato degli errori di sessantasei anni fa, ma nel frattempo la pianta che ha generato quel frutto è stata innestata almeno con altre due – non meno velenose: la abominevole corruzione che ha caratterizzato la dirigenza palestinese da Ahmed Shukeiri ad Abu Mazen, passando per Arafat, e il fondamentalismo islamico che nega a Israele il diritto di esistere e considera gli ebrei – tutti gli ebrei – selvaggina che è giusto e doveroso cacciare e abbattere.

Israele è senza colpe? Non ha nulla da rimproverarsi? Sarebbe stupido e ipocrita affermarlo, ma – ancora una volta – non si può ignorare l’evidenza. Egitto e Giordania sono gli unici due stati arabi ad avere sottoscritto accordi di pace con Israele. Lo hanno fatto onestamente e hanno riavuto entrambi e per intero i territori perduti nelle guerre combattute e perse. Egitto e Giordania non hanno avuto né hanno motivo di recriminare sulla pace conclusa con Israele – né Israele ha avuto o ha motivo di rimpiangere la pace fatta con loro. Alla pace delle dichiarazioni è seguita la pace nei fatti. Israeliani, giordani ed egiziani non si amano e probabilmente continuano a guardarsi con poca simpatia e tanta diffidenza, ma non si sparano più da anni e da anni collaborano in svariati ambiti, dall’agricoltura alla sicurezza e alla ricerca scientifica. A seguito degli accordi di Oslo di vent’anni fa, Israele iniziò un graduale passaggio dell’amministrazione di porzioni sempre più ampie dei territori occupati all’Autorità Nazionale Palestinese. E all’uscita di Israele da Nablus, da Jenin, da Tulkarem, da Ramallah e da Gaza si accompagnò l’erompere di una spaventosa ondata di terrorismo. Israele è uscita da Gaza nell’agosto del 2005. Da nove anni a Gaza non c’è più traccia di israeliani – e quando se ne andarono gli israeliani lasciarono a Gaza serre e dissalatori. Nel 2005 Gaza non era la prigione a cielo aperto per la quale adesso – a sproposito – ci si strappa i capelli e si fanno le flottiglie. Da Gaza i palestinesi potevano uscire per andare a lavorare in Israele. Ma da Gaza uscivano anche i razzi – centinaia, migliaia di razzi. Da Gaza sono usciti i rapitori di Gilad Shalit – preso, giova ricordarlo – in territorio israeliano e tenuto segregato per oltre cinque anni. E a Gaza, dal 2007, governa Hamas, che l’anno prima aveva vinto a valanga le elezioni palestinesi e che – giova ricordare anche questo – nel proprio statuto rivendica l’obiettivo di cancellare Israele dalla carta geografica, ma non parla mai della creazione di uno stato palestinese. Quella stessa Hamas che denuncia il cappio soffocante che Israele avrebbe stretto attorno al collo di Gaza, ma, nonostante quel cappio, ha investito un miliardo e mezzo di dollari nella costruzione di tunnel la cui unica funzione è aggredire Israele. Quella stessa Hamas che ha costituito un arsenale di migliaia di razzi e missili, ha dedicato una quantità di anni e risorse ad addestrare i suoi miliziani a compiere incursioni in territorio israeliano e attraverso le scuole, i campi estivi, le moschee, la stampa e la televisione indottrina scientificamente il suo popolo all’odio antisemita più implacabile.

Ora, il fatto che i territori conquistati da Israele nel 1967 siano da considerarsi occupati o contesi è senz’altro una questione meritevole di approfondito dibattito tra i giuristi, ma è, temo, del tutto irrilevante sul piano pratico. Che fosse occupata o contesa, da Gaza Israele è uscito completamente nove anni fa – e l’ostilità nei suoi confronti non è diminuita di una iota. Che fossero occupati o contesi, da larga parte dei Territori della West Bank Israele è uscito e, di fronte a una recrudescenza spaventosa del terrorismo, ha dovuto erigere la barriera di difesa – il tanto esecrato muro della vergogna, che però ha salvato e salva vite. In Israele non mancano i fanatici, come l’assassinio di Yitzhakh Rabin ha tristemente dimostrato. Però Israele è anche il paese di Pace Adesso, di B’Tselem e di partiti, movimenti, associazioni, gruppi e circoli che esprimono posizioni aspramente critiche nei confronti del governo e si adoperano per promuovere incontri, conoscenza e solidarietà tra la società civile israeliana e quella palestinese. Ci sono e svolgono la loro opera in Israele, senza che venga loro impedito e senza rischi per la loro incolumità. Un palestinese che a Gaza esprimesse apertamente il proprio dissenso verso la politica di Hamas e chiedesse di riconoscere senza ambiguità Israele non vivrebbe abbastanza da finire la frase.

E’ in corso una guerra, ma la guerra non è cominciata con i bombardamenti israeliani di cinque settimane fa. Non è cominciata nemmeno con il rapimento e l’uccisione bestiale dei tre adolescenti israeliani e nemmeno con quelli altrettanto ripugnanti del loro coetaneo arabo. Questa guerra è in corso da anni. Non passa giorno senza che da Gaza vengano sparati missili su Israele – e mentre tentava di far piovere morte su Israele dal cielo, Hamas scavava tunnel per portargliela in casa da sottoterra. Quei tunnel non sono stati costruiti nelle ultime cinque settimane e non hanno mai avuto la funzione di alleviare le sofferenze della popolazione civile di Gaza. Ma tutto questo sembra non esista. A frequentare i social network e a leggere gli articoli della stampa quotidiana e molti dei loro commenti pare di assistere al video che qualche buontempone ha realizzato con le immagini della semifinale mondiale tra Germania e Brasile cancellando dal campo i giocatori verdeoro. I tunnel, i missili, i tentativi di rapimento di civili, l’uso rivendicato di scudi umani non si vedono: si vede solo l’aggressione israeliana e la sproporzione. Senza Iron Dome in Israele si sarebbero contati centinaia di morti – e non è assurdo pensare che nemmeno di quelli ci si sarebbe accorti. Del resto, non un sospiro si è levato dalla platea che rivendica i diritti dei palestinesi per denunciare il fatto che molte centinaia di loro siano stati lasciati morire di fame quest’anno, (l’anno della solidarietà internazionale al popolo palestinese…), nel campo profughi di Yarmouk, in Siria. Nessuno denuncia il vero regime di apartheid e segregazione del quale sono fatti oggetto i palestinesi che vivono in Libano, in Giordania o in Kuwait. E’ malizioso constatare che gli unici palestinesi dei quali sembra importare un fico a qualcuno sono quelli morti per mano israeliana? Ma davvero non ci sono al mondo paesi e governi che meritino sdegno, riprovazione, boicottaggio e messa all’indice più di quanto li meriti Israele?

L’unica cosa che si può sperare è che questo conflitto si concluda con la caduta di Hamas – che non ha certo dimostrato di avere a cuore il destino del suo popolo – e per i palestinesi di Gaza possa tornare ad aprirsi uno spiraglio di vita normale, non più esposta alla quotidiana, pervasiva, intossicante somministrazione del veleno antisemita. Meno di cento chilometri dividono Gaza da Tel Aviv: bisogna sperare che, in un futuro non troppo lontano, anziché dai tunnel e dalle traiettorie dei missili e dei colpi di artiglieria, quella distanza sia attraversata dalla fibra ottica e dalle idee.

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