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Scritto da nel Numero 148 - 1 Febbraio 2018, Politica | 0 commenti

I sinistrati

I sinistrati

 

L’idioma italico lo considero da sempre assai ricco di termini il cui suono in termini di resa supera di gran lunga il significato intrinseco. Confesso da subito però di avere una conoscenza piuttosto limitata delle lingue straniere e dunque non escludo che tale sentimento possa appartenere anche ad uno svedese o ad un coreano (ai calciofili vorrei dire che sono le prime due nazioni balenatemi a mente). Penso a parole come mellifluo, recondito, roboante, asfittico ma potrei produrmi in una lista infinita del tutto priva di supporto logico in quanto assolutamente soggettiva e frutto della musicalità che ciascuno di noi serba in un angolo del proprio cervello.

Sinistrati mi suona in modo sublime. Quando accade una sciagura che caccia dalle proprietà o dal territorio le genti del luogo ecco dispiegarsi il termine sinistrati. Va detto che, con l’eccezione delle agenzie di assicurazione, solo in conseguenza di terremoti o altre calamità questa parola diventa d’uso comune, altrimenti rimane in sonno per mesi e anni e si preferisce pensare a coloro che hanno subito un danno come a dei malcapitati.

Ora, a mio giudizio, gli elettori ma anche tout court i simpatizzanti delle idee di sinistra sono, in Italia più che altrove, esattamente dei “sinistrati” e lo sono da almeno trent’anni. Chi ritiene che ciò dipenda dal crollo dell’Unione Sovietica e del muro di Berlino non è lontano dalla realtà ma ne vede solo la parte più emergente, la punta dell’iceberg; lo smottamento risale invece a tempi più antichi e le concause sono molteplici. Prima fra tutte la forza del sistema capitalistico che ha i soldi ed il potere per segnare le linee guida del “progresso”, seppure fra qualche battuta d’arresto e qualche decennio di concessioni. Tale sistema ha sempre conservato un vigore prorompente, sia nell’indirizzare, anche psicologicamente, le sorti dei popoli, sia nel pianificare le strategie difensive per autoalimentarsi e riprodursi in forme diverse, per ultima la penetrazione nel principale regime formalmente anticapitalista che peraltro da almeno vent’anni rappresenta il centro dell’economia mondiale, ossia la Cina comunista.

In Italia non esiste più una forza dichiaratamente anticapitalista di massa e se in un ristorante mancano cuochi e ingredienti per le pietanze difficilmente ci sarà la fila fuori. Mi rendo conto quanto possa essere faticoso parlare al vento ma, premesso che l’anticapitalismo attuale non può essere né immediatamente rivoluzionario né forse leninista nel senso della costruzione della dittatura del proletariato, cionondimeno non si può tacere sul punto se si vuole dare una scossa ai sinistrati. Quindi, senza evocare il sol dell’avvenire o proporre a generazioni nuove schemi del passato remoto (gli schemi, non le idee però), è necessario riprendere in mano i rudimenti di una ideologia anticapitalista e in una prima fase antiglobalizzante per tornare a costruire una diffusa coscienza di classe, quand’anche la classe non sia più solo quella sovrapponibile al mondo operaio.

Anticapitalismo oggi significa innanzitutto cinque cose: redistribuzione delle risorse e delle ricchezze, robotizzazione al servizio della riduzione delle ore lavorate in favore del tempo alla persona, un piano Marshall per il sostegno e per la crescita dei popoli terzomondisti, controllo pubblico dei principali servizi e beni comuni, creazione e conservazione di luoghi sociali dove veicolare cultura e partecipazione politica. Per fare ciò non serve una bacchetta magica e il percorso non può essere né agevole né rapido ma occorre agire sulla fiscalità generale internazionale, sul bilanciamento costituzionale dei vari interessi in gioco, sul diritto al lavoro e del lavoro a livello mondiale, introducendo ad esempio contratti collettivi di settore che valgano ovunque, sul trasferimento anche forzoso di risorse e di proprietà, sulla conversione a economie sostenibili dal punto di vista della tutela del suolo e dell’ambiente. Solo tematiche come queste, affrontate di petto, possono dare un senso a partiti di sinistra e possono arrestare l’involuzione che negli ultimi decenni sta azzerando le conquiste di giustizia sociale e di civiltà che il secolo scorso, qua e là nel mondo, ha regalato. E solo una sinistra anticapitalista, nei termini suddetti, può fare da argine ai populismi di destra e/o all’individualismo sfrenato.

Perché, sia pure in misura assai riformista e edulcorata, tale chiave di lettura abbia rifatto capolino nella Francia di Melenchon, nell’Inghilterra di Corbyn e persino negli Usa di Sanders, oltre che nella ventata progressista di alcuni stati dell’America Latina, seppure con gli affanni propri di quelle aree, e in Italia invece abbia portato, prima all’annientamento del più grande Partito Comunista occidentale e poi alla riproduzione dei consociativismi dell’epoca crispiana o giolittiana, rimane per me il mistero insoluto dello scollinamento della mia età adulta.

Probabilmente dipenderà dalla ricchezza dell’idioma italico e dalla musicalità dei suoi termini che tendono a cullarci in una soporifera staticità o in una estraniazione antropologica. In qualche misura pur essendo il paese del sole è come se rimanessimo immersi per decenni nelle nebbie, salvo sporadiche e fantasiose eccezioni.

E a proposito di nebbie, gli ultimi giorni del mese ne hanno elargite di abbondanti e spesse su una vasta area del paese che va dal varesotto al Salento, dal basso Friuli alle pianure campane. Quando ciò accade in pieno inverno non può che esserci una parola che di musicale non ha molto: anticiclone. Gli anticicloni invernali non sono facili da scalzare in Europa anche se in passato mostravano una capacità di resistenza assai maggiore in quanto tendevano ad agganciarsi a quello russo-siberiano. Quest’anno si tratta poi di una novità assoluta destinata a ridimensionarsi già dai primissimi giorni di febbraio per cedere il posto alle correnti artiche o atlantiche che sono state il dominus della stagione, intervallate peraltro da continui richiami di aria calda da sud che hanno dato vita a sciroccate importanti e a temperature ancora una volta sopra la media del periodo.

Febbraio può portare anche a importanti episodi di maltempo e a diffuse nevicate, anzi tendenzialmente il centro-sud e l’Appennino in genere ricevono le precipitazioni più importanti proprio in questo mese e lo scenario prossimo venturo non chiude del tutto le porte a questa prospettiva. Ma affinchè si possa parlare di un ritorno del freddo in grande stile occorrerebbe la distensione in senso orizzontale dell’anticiclone europeo al di sopra delle Alpi, con conseguenti ingressi di masse di aria fredda da est. Tale configurazione barica fatica però ad imporsi negli ultimi anni e quindi prevalgono al più i rapidi passaggi da Nord che impediscono la stabilizzazione del freddo, pur potendo instaurare alcuni giorni di pieno inverno con nevicate importanti in discesa dal Triveneto lungo l’Adriatico, o in alternativa, entrando dalla porta del Rodano, innescando episodi burrascosi fra Toscana, Umbria e Lazio.

Seppure si configura una prima decade di febbraio “mossa” e di stampo invernale non vi saranno né nevicate diffuse sulle principali città, né freddi polari in vista. Ma chissà che non si diradino le nebbie e si riacquisisca a sinistra la lucidità di voler tornare dentro le proprie case e non essere più sinistrati ma al più malcapitati.

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